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Che fare della (non più ex) Ilva

Che fare  della (non più ex)  IlvaIlva, Taranto – LaPresse

Taranto La situazione in cui si ritrova l’ex-Ilva di Taranto non è un conflitto tra salute e occupazione ma una lotta tra operai e padroni (dei padroni contro gli operai); non […]

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 14 novembre 2019

La situazione in cui si ritrova l’ex-Ilva di Taranto non è un conflitto tra salute e occupazione ma una lotta tra operai e padroni (dei padroni contro gli operai); non è un esercizio di compatibilità tra ambiente e «sviluppo». È l’evidenza di una alternativa ineludibile tra conversione ecologica e catastrofe climatica e ambientale.
Pretendere che un gruppo industriale «si prenda cura» di un impianto di cui ha assunto la proprietà solo per «toglierlo di mezzo» e acquisirne il mercato non è buona politica.

QUEL GRUPPO TROVERÀ nuove occasioni per sfilarsi; non certo per rilanciarlo. È peggio che lasciare tutto in mano ai Riva. Smantellare l’impianto, risanare il sito e ricostruirlo altrove? A parte il costo stratosferico, che prospettive potrebbe mai avere un impianto nuovo in un mercato dell’acciaio destinato a contrarsi?
Tenerne in vita solo una parte e cercare nel risanamento del sito una soluzioni per le maestranze «superflue»? Si perderebbe l’unico vantaggio competitivo, il gigantismo. Chiuderlo e cercare delle alternative? Sì, ma non la «panacea» del turismo: l’industria a maggior impatto ambientale del mondo; presto in crisi quando aereo e navi da crociera verranno contingentati come maggiori emettitori di CO2.

E poi. A chi affidare la riconversione? Ai privati? In Italia, ma in quasi tutto il mondo, gli investimenti industriali languono. Soprattutto su soluzioni di scarse prospettive. A incentivi che ne smuovano gli appetiti? A prescindere dai vincoli sugli aiuti di Stato, si sa che i beneficiari li incassano e poi se ne vanno. Allo Stato, nazionalizzando (tutto o al 30 per cento)? Ma, ristrettezze della finanza pubblica a parte, dov’è il management per gestire un impianto del genere? Aggiungi che i Riva avevano smantellato non solo il management Italsider, ma anche tutto il quadro intermedio, affiancandolo con una rete di «fiduciari» che facevano il bello e il cattivo tempo per conto del padrone.

CHI È IN GRADO DI ASSUMERSI un compito titanico del genere senza bluffare, come hanno fatto finora tutti i commissari? Non c’è più l’Iri che, nel bene e nel male, era stata scuola e vivaio di manager per tutto il settore pubblico, con una propria «cultura aziendale». Oggi a dirigere quello che di pubblico è rimasto nell’economia italiana vengono chiamati solo squali che hanno fatto strada nel settore privato o nella finanza.

MA L’ITALIA, SI DICE, non può fare a meno del «suo» acciaio. Quale Italia? Quella che ha 1,7 auto private per abitante (il tasso più alto dell’Europa)? Non potrà durare a lungo. E quanto acciaio? Quello per alimentare le catene di FCA che PSA ridimensionerà, o Fincantieri che fa solo più navi da crociera e da guerra, o Leonardo, totalmente riconvertito alla produzione di armi? Sono tutte senza futuro: la crisi climatica ne metterà fuori uso le produzioni (già lo sta facendo) e l’industria bellica – l’unica prospera – va messa in crisi lottando per la pace.

ALLA DISCUSSIONE SUL FUTURO dell’Ilva e di Taranto mancano due cose: una è la crisi climatica, che imporrà in tempi molto stretti una radicale riconversione dell’apparato produttivo: con la chiusura di tutte gli impianti incompatibili con le esigenze di una economia climate-friendly, pena il loro collasso per mancanza di mercato; ma anche con l’apertura di altrettante iniziative necessarie alla riconversione: in campo energetico, impiantistico, agroalimentare, nella mobilità, nell’edilizia, nel risanamento del territorio, oltre che in tutti gli ambiti del «prendersi cura» delle persone: istruzione, salute, cultura, assistenza.

L’altra è una nuova governance dell’apparato produttivo e del territorio, considerati insieme; perché fanno parte di uno stesso mondo, che è quello della vita quotidiana. La gestione attuale è incapace di immaginare l’ineludibile transizione che ci attende. Non c’è personale per gestirla né nelle direzioni aziendali o nelle sedi dell’alta finanza, né al governo degli Stati o delle amministrazioni locali; e meno che mai alla Bocconi.

QUELLE COMPETENZE ci sono, ma sono disperse e senza voce; si possono recuperare solo mettendo insieme maestranze, tecnici, associazioni civiche, Università, pezzi sparsi del management e dei governi locali. Innanzitutto, per valutare insieme che cosa si può salvare, che cosa si può riconvertire e che cosa va eliminato dell’apparato produttivo e dell’assetto territoriale esistente.

È quello che si poteva e doveva fare sei anni fa, quando i «cittadini e lavoratori liberi e pensanti» avevano preso in mano la questione, riuscendo a convocare in piazza assemblee quotidiane con migliaia di presenze, che si è fatto di tutto per soffocare. Oggi la partecipazione langue? Taranto, soprattutto allora, ha dimostrato il contrario. Langue se la si soffoca; fiorisce se si apre uno spiraglio per cambiare le cose.

Presto la crisi climatica e ambientale la rimetterà all’ordine del giorno ovunque. In attesa di una politica industriale che includa questi processi, i lavoratori che perderanno il loro posto potrebbero rivelarsi i migliori fautori della transizione.

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