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Che ci facevano i futuristi in Piazzetta?

Che ci facevano i futuristi in Piazzetta?"Depero e Clavel mimica!", 1917, Mart, Archivio del ’900

"Capri 1905-1940" di Lea Vergine, riproposto dal Saggiatore Scritto nel 1983 «rovistando fra i momenti privilegiati e ignoti di molte vite», l'anomale libro d'antan disegnava una topografia dell’isola non all’insegna di incanti e azzurrità, ma della più stravagante modernità

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 14 ottobre 2018

«Al viaggiatore, tratto in inganno dagli imbonimenti della letteratura turistica, desideroso di visitare Capri, non si può raccomandare abbastanza, nel reciproco interesse, di farne a meno». C’è sarcasmo e anche amarezza nelle prime righe della Guida inutile di Capri che Edwin Cerio pubblicò nel 1946. Ormai era chiaro che il sogno si era liquefatto, la battaglia persa da tempo. Il visitatore, varcata la Piazzetta, si trovava ormai «sperduto nella giungla dei più infimi prodotti della chincaglieria e marchetteria internazionale».
Edwin Cerio era ingegnere e figlio del mitico medico condotto di Capri, Ignazio. Da giovane si era dato ad affari, carriera e avventure per il mondo. Ma nel 1920 aveva deciso di rientrare nell’isola. Sarebbe diventato sindaco, seppure per poco. In tempo comunque per organizzare nel 1922 un Convegno del Paesaggio, contro la speculazione fondiaria e alberghiera che ormai stava aggredendo l’isola. Fosse stato per lui, i turisti li avrebbe rispediti tutti a casa, per dare spazio invece all’utopia: quello di un’isola luogo di raccolta di spiriti liberi, provenienti da ogni angolo del mondo. Il Convegno si concluse con un appello alle Nazioni Unite perché si riconoscesse a Capri una sorta di status di repubblica ideale. «Un centro mondiale di produzione intellettuale», secondo le parole di Enrico Prampolini, presente in platea al Convegno al fianco del «capo» Filippo Tommaso Marinetti. Cerio non stava sognando a vanvera, perché effettivamente Capri nei primi decenni del Novecento aveva più che accarezzato, vissuto quell’utopia; un’utopia stravagante, capace di concentrare su quel trapezio di roccia liberato dal mare i personaggi più imprevedibili, arrivati da ogni parte del continente. Richiamati tutti da un evidente quanto stravagante magnetismo.
Per immaginare e costruire un libro che ricostruisse questo passaggio di storia dell’isola, bisognava lasciarsi catturare da quel magnetismo: ed è quel che è accaduto a Lea Vergine, che nel 1983 arrivò a pubblicare un libro anomalo e affascinante: Capri 1905-1940 Frammenti postumi (Il Saggiatore, pp. 295, euro 29,00), arrivato oggi alla quarta edizione (e al quarto editore diverso, dopo Feltrinelli, La Conchiglia e Skira: anomalo anche in questo…). Davanti a storie che si sarebbero facilmente prestate a una narrazione romanzesca, Lea Vergine aveva scelto un modello opposto: quello di una «topografia culturale moderna», ricostruita con Elisabetta Fermani e Sergio Lambiase, autori delle ricerche realizzate «rovistando tra i momenti privilegiati e ignoti di molte vite… inoltrandosi nelle trame di liaisons affatturate dalla discrezione quando non dal segreto».
È un libro che in questo modo ha introiettato nella sua struttura la stravaganza del mondo che racconta; i protagonisti entrano in scena uno a uno, in una sequenza di capitoli secchi, fedeli a una preoccupazione documentaria. Ma la scrittura in tante situazioni non riesce a trattenere trasalimenti di legittima simpatia. «Anarchici, socialisti, futuristi, poeti, profeti russi e mitteleuropei, in malattia e stravaganza, nella teorizzazione politica di respiro internazionale come nella ricerca di forme nuove di linguaggio, sulla piazzetta, al caffè o in clausura, lavorarono a Capri», scrive nel capitolo introduttivo Lea Vergine, dando la sensazione di trovare anche se stessa dentro quella situazione. È un elenco che restituisce la varietà, l’imprevedibilità e il cosmopolitismo delle presenze a Capri in quei decenni. Imprevedibili per loro natura i futuristi, creature antropologicamente urbane per definizione, e che invece si accasarono a Capri senza venir meno al loro attivismo intellettuale. «Capri», scriveva Marinetti, «sei il rifugio degli indispensabili disordini, il confortabile manicomio d’ogni igienica poesia. Meglio, sei un pugno teso fuori dal mare dei ritmi contro l’ordine europeo e il suo burocratico dovere morale».
Con Marinetti sull’isola era arrivato anche Fortunato Depero che nel settembre 1917 aveva esposto alla Sala Morgano. In quello stesso anno Depero aveva ricevuto la visita di Gilbert Clavel, estroso rampollo di una ricca famiglia di industriali tessili svizzeri, arrivato ad Anacapri per curare la salute fragile. L’incontro tra i due era stato organizzato da Michail N. Semënov, intellettuale russo in esilio (con base però a Positano), tra i primi editori di Gorkji. Ne nacque una collaborazione, con Depero che illustrò un libretto di Clavel, Un istituto per suicidi, e Clavel che invece si adoperò per fornire i mezzi finanziari per i «Balli Plastici» del maestro futurista, andati in scena a Roma l’anno successivo. L’immagine di copertina suggella lo spirito tutto stravagante di questa amicizia: i due posano mimando i «Balli Plastici», Depero con un cavalletto sulle spalle e piedi goffamente convergenti, Clavel, schiacciato dalla sua gobba, con un imbuto come cappello. Il sole picchia, profumato e impietoso, come un riflettore acceso sulla stramba messa in scena.
Poteva accadere questo e anche ben altro a Capri in quegli anni. Ad esempio che nascesse una «scuola superiore di propaganda e di agitazione di operai», di esuli russi arrivato sull’isola dopo il fallimento dei moti del 1905. Personaggio più illustre di questa schiera era certamente Maksim Gor’kij, attorno al quale si erano raccolti una serie di personaggi di primo piano, quasi una comunità. Obiettivo della scuola elaborare una cultura proletaria, un percorso «di propaganda e disordine per lavoratori». Il tutto sotto gli occhi sospetti di Lenin, davanti a queste «maledette» questioni di filosofia. «Capri fa dimenticare tutto», sarà il rimprovero finale del leader della Rivoluzione allo scrittore esule.
In effetti Capri non era una semplice piattaforma neutrale, ma un incubatore di vita e di nuove costruzioni. Nel percorso si era inserito ad esempio un personaggio come Umberto Zanotti Bianchi, che nel 1913 tenne una conferenza al gruppo di Gor’kij su Mazzini e poi lavorò alla fusione in un’unica biblioteca italo-russa del patrimonio librario dei due gruppi, al servizio sia degli isolani che degli intellettuali. Gor’kij sullo slancio propose anche di allestire alla Certosa un museo etnografico italo-russo.
Questo e tanto, tanto altro accadeva in quegli anni a Capri, l’isola «asimmetrica» (Filippo Tommaso Marinetti). Leggere per credere.

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