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Che chic il presidente…

Che chic il presidente…il giuramento di Sergio Mattarella, neo presidente della Repubblicaa

ManiFashion Con il suo cappotto di ordinanza in taglia, ben coordinato alla cravatta, lo stile Normcore da gentiluomo italiano del sud del neo presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella, è l’esatto esempio di come l’estetica atterra sull’eleganza

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 7 febbraio 2015

Con il suo cappotto di ordinanza in taglia, ben coordinato alla cravatta che spicca sul candore della camicia indossata sotto l’abito di sartoria, lo stile Normcore da gentiluomo italiano del sud del neo presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella, è l’esatto esempio di come l’estetica atterra sull’eleganza a prescindere dai vestiti e che è capace di coinvolgere pensieri, parole e opere del vivere quotidiano. Lo stile di Mattarella, infatti, è tutt’altro che l’espressione dei suoi vestiti, quanto piuttosto quello che nasce dalla necessità di argomentare il pensiero con regole ed espressioni di senso compiuto. Il che forma uno stile di vita.

Questo percorso non è estraneo alla moda, soprattutto di quella moda che fa degli abiti un’espressione del senso di chi li pensa e li disegna. Se Miuccia Prada insiste da anni nel dire che i vestiti sono delle idee, non è meno rilevante il pensiero di chi le si affianca, come Rei Kawakubo di Commes des Garçons, nel dire che attraverso i vestiti si possono raccontare anche le bruttezze di un’epoca, o le contorsioni di un pensiero che non riesce a trovare il senso delle manifestazioni comuni di donne e uomini che vivono nel mondo globale. Per sintetizzare una sua recente collezione che ha intitolato Monster, la Kawakubo ha dichiarato che non pensava ai mostri dei video games, ma «alla pazzia dell’umanità e alla paura che abbiamo tutti. O anche alla voglia di andare oltre il senso comune e all’abbattimento dell’ordinario espresso attraverso qualcosa che potrebbe essere o molto sgradevole o molto bello».

Ma dietro alle sue donne vestite con abiti incomprensibili, fuori taglia, addirittura fuori scala, spesso con le facce coperte o avvolte da tessuti informi trasformati in nodi, tubi e stratificazioni di protuberanze, ciò che viene fuori, oltre alla volontà di raccontare un qualcosa che più che uscire scappa via dal senso comune dell’abito (e anche della vita quotidiana) è la straordinaria provocazione della Kawakubo che ci invita a riflettere su quanto noi tutti siamo diventati dei mostri. Mostri egocentrici, pronti a sacrificare il nostro stesso pensiero per ottenere un vantaggio, sempre disposti a essere gradevoli o ossequiosi, sempre aderenti al senso comune degli altri per ottenere il loro favore. E veloci nel trasformare il nostro modo di vestire in uno strumento di comunicazione superficiale eppure capace di attirare l’attenzione e la benevolenza altrui, non fosse altro che per catturare una foto che rende molti, uomini e donne, delle favolose nullità celebri per il tempo di un click come, per i politici, per la durata di un applauso durante le esibizioni nei talk show.

Portata nella politica italiana, questa riflessione che la moda conduce sulla capacità sovversiva del ragionamento che prevale sulla banalità della parola a effetto che strappa gli applausi potrebbe rappresentare un punto e a capo. Tanto più sconvolgente se a proporlo è un settantenne della prima repubblica.

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