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Chateaubriand, fascino quasi esotico

Chateaubriand, fascino quasi esoticoFrederic Watts, The Minotaur, 1885

Chateaubriand VOCAZIONE ALLA RAPPRESENTATIVITÀ E PIENEZZA EPICA: RILEGGERE LE «MEMORIE D’OLTRETOMBA» («MILLENNIO») IN UN’EPOCA SEGNATA DALLA CRISI DELL’ESPERIENZA

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 27 dicembre 2015

Un’esistenza che ha attraversato, a distanza variabile ma sempre ridotta dalle luci della ribalta, i rivolgimenti storici alle origini della modernità – la Rivoluzione del 1789, l’Impero napoleonico, la Restaurazione, la Rivoluzione del luglio 1830, la monarchia borghese di Luigi Filippo – per concludersi pochi mesi dopo la nascita della Seconda Repubblica, nel 1848, all’età di ottant’anni, quasi per predestinazione storica doveva assumere pienezza epica e aura eroica; doveva rispondere a una vocazione alla rappresentatività: caratteri, tutti, che s’ammantano d’un fascino desueto e quasi esotico in un’epoca variamente contraddistinta, come la nostra, da una conclamata crisi dell’esperienza. E infatti delle connotazioni retoriche, monumentali, e diciamo pure solennemente cimiteriali, suggerite dal titolo, l’autobiografia di François-René de Chateaubriand, le Memorie d’oltretomba, non s’è mai liberata. Libro della dismisura fin dalle dimensioni esterne (più prossime alle duemila che alle mille pagine), nasce come lascito testamentario di un uomo ambizioso e opportunista; e quel titolo lo inscrive deliberatamente nella tradizione della memorialistica aristocratica del Seicento e d’inizio Settecento – quella illustrata dal cardinale di Retz e dal duca di Saint-Simon –, rifiutando invece il modello, più prossimo nel tempo ma ideologicamente aborrito, di Jean-Jacques Rousseau: Memorie, dunque, e non Confessioni, per segnare il rifiuto sdegnoso (ma segretamente contrastato) di ogni psicologismo intimista, per rivendicare il diritto alla reticenza, e a una fiera focalizzazione sul ruolo pubblico – prima letterario e poi politico – dell’autore, il cui destino conta, innanzitutto, come sineddoche di quello di un’intera nazione; e il cui giudizio sulle vicende storiche e sui loro protagonisti, spesso fazioso, o tendenziosamente ambiguo, o perfino miope, ma sempre pronto e denso di significati (Chateaubriand è stato anche un grande giornalista), è esibito a ogni pagina.
Di fronte ai monumenti delle patrie lettere, in Francia come in Italia, la sensibilità novecentesca ha oscillato fra i poli opposti e complementari della schietta iconoclastia e della valorizzazione paradossale. Così, se per un verso, riprendendo giudizi sprezzanti che erano già di Zola, molti hanno dichiarato pomposamente insopportabile l’opera tutta dell’enchanteur (un po’ come da noi l’‘inimitabile’ d’Annunzio ha attizzato naturaliter le fiammate della parodia), per un altro una tradizione critica illustre e ormai molto nutrita ha cercato, spesso con ottime ragioni, la fragilità ambivalente dell’uomo romantico dietro la prosopopea del paladino della Restaurazione; ha riconosciuto i frequenti guizzi di irrequietudine traditi dalle asimmetrie di un edificio solo in apparenza progettato con pedante, mortuario rigore; e alle grandi campate della narrazione ha contrapposto le riuscite folgoranti di singole pagine descrittive (quasi poèmes en prose), facendo di Chateaubriand il capostipite della prosa d’arte estetizzante: quasi che al gusto novecentesco fosse possibile appropriarsi delle Memorie d’oltretomba solo attraverso una selezione antologica, o una fruizione deliberatamente a contropelo. Così Roland Barthes si è ingegnato a esaltare la forza disgregatrice degli anacoluti, frequenti soprattutto nella tarda Vita di Rancé, capaci a suo dire di stravolgere in frammentaria «paratassi impazzita» la prosa del più classico, levigato e di norma ipotattico fra i narratori ottocenteschi; così Jean-Pierre Richard ha letto, nell’horror vacui di una scrittura debordante di fatti e giudizi, «una grande messa in scena dell’assenza», dove l’ipocrisia magniloquente si rovescia in autenticità dell’esperienza letteraria, e l’esibizione del grandioso non esclude il riscatto poetico dell’infimo. Già Proust, d’altronde, aprendo la strada a tutte le riletture attualizzanti, ammetteva il debito contratto dalla celeberrima madeleine della Recherche con quella precoce rappresentazione di una memoria involontaria che addirittura dà l’abbrivo a tutta l’opera autobiografica di Chateaubriand: il canto di un uccello che, nel luglio del 1817, evoca all’improvviso nell’autore quasi cinquantenne il ricordo struggente dell’infanzia pre-rivoluzionaria, nel castello bretone di Combourg. Non c’è dubbio: le Memorie d’oltretomba hanno avuto in Italia sorte tanto grama – sono state tradotte per la prima volta integralmente solo nel 1995, nella «Pléiade» di Einaudi – anche perché questo memorabile «magico suono», che echeggia dal ramo più alto di una betulla nel parco di Montboissier, è il canto melodioso dell’acuta, squillante, quasi dionisiaca grive: in italiano, nient’altro che un opaco e ottuso tordo. Una figura della coscienza epifanica centrale in tutto l’immaginario novecentesco non poteva essere annunciata, di qua dalle Alpi, da un uccello portatore di ben più prosaiche connotazioni comico-realistiche: imprevedibile autonomia del significante, che vale da curioso contrappasso traduttivo, per uno scrittore innamorato, forse più ancora che di se stesso, dei valori fonici e timbrici della lingua.
In realtà, la critica più recente, così come ha fatto giustizia delle opposizioni fra Memorie e Confessioni (nel capolavoro di Chateaubriand i due registri, l’uno esibito e l’altro sotterraneamente vagheggiato, convivono in precario equilibrio) e fra ipocrisia e autenticità (l’io autobiografico si dissolve, con attualissima indeterminazione, nelle maschere che di volta in volta assume: quasi un’autofiction), ha mostrato come la singola pagina, per coerenza o per contrasto, acquisti senso e risonanza solo in dialogo con l’architettura dell’insieme. Un’architettura oggi finalmente di nuovo accessibile, dopo vari anni di assenza dai cataloghi, anche al pubblico italiano: torna infatti, in nuova, sontuosa veste (sempre einaudiana, ma nei «Millenni»), e con raffinati inserti iconografici, l’impeccabile traduzione di Ivanna Rosi, Filippo Martellucci e Fabio Vasarri, corredata dall’appassionata Introduzione di Cesare Garboli, che nulla ha perso del suo smalto propriamente giovanile – prima ancora che un saggio critico, è la storia di una lettura, e della scoperta di un inopinato, avvolgente plaisir du texte, capace di suscitare amore incondizionato per uno scrittore «così reazionario, vanitoso, codino, menagramo». È un’edizione che, certo, può intimidire: per la mole (il cofanetto comprende due volumi, per un totale di 2304 pagine) e il non modico prezzo (160 euro); non però per la ricchezza degli apparati critici (il cui aggiornamento è stato ottimamente curato da Vasarri), che si rivelano guida alla lettura indispensabile, consentendo non solo un orientamento nella selva di fatti e personaggi storici cui il testo allude, ma anche affascinanti incursioni nel tormentato laboratorio dello scrittore. È un’edizione monumentale: che sugli scaffali rischia di perpetuare l’immagine retorica di un autore sempre in posa (a quando un tascabile?), ma ad apertura di pagina squaderna la complessità di una scrittura in bilico – per riprendere un’immagine di Marc Fumaroli – fra Racine e Rimbaud; di un io che alterna «burrascosa sincerità» e «sottilissima malafede», e sul «fondo delle idee vago» accampa splendidi i «contorni delle frasi precisi» (così Garboli).
Quella di Chateaubriand è «l’autobiografia che nasce dal riscriversi, dal correggersi, dal giustificarsi, dal chiarire e dal precisare a distanza di anni e di decenni le proprie posizioni intellettuali e politiche, dal discutere le critiche, i successi, gli insuccessi, dal discutere le discussioni, insomma quel genere di verifica ininterrotta delle idee proprie e degli altri» che si fa Storia, anche grazie al «gusto acre, quasi cattivo, di trattare la propria lingua come una lingua morta». Garboli licenzia queste righe, a metà anni Novanta, a ridosso della scomparsa di un intellettuale e poeta che aveva fatto della «verifica» (dei poteri) il suo emblema, e della «sublime lingua borghese», «più morta di un inno sacro» il suo strumento espressivo: piace intuire che il suo ritratto di Chateaubriand sia segreto, paradossale omaggio, ancora oggi d’inattuale attualità, a Franco Fortini.

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