Charleroi, la Detroit d’Europa
Reportage Negozi chiusi, fabbriche dismesse e devastazione ambientale. Nell’ex cuore siderurgico e minerario del Belgio un cittadino su quattro vive del sussidio di disoccupazione, quasi la metà della popolazione non ha un titolo di studio, le malattie causate dal lavoro mietono vittime e metà del patrimonio immobiliare è in stato di abbandono. Ecco cosa accade quando muore una città industriale
Reportage Negozi chiusi, fabbriche dismesse e devastazione ambientale. Nell’ex cuore siderurgico e minerario del Belgio un cittadino su quattro vive del sussidio di disoccupazione, quasi la metà della popolazione non ha un titolo di studio, le malattie causate dal lavoro mietono vittime e metà del patrimonio immobiliare è in stato di abbandono. Ecco cosa accade quando muore una città industriale
Il campanile della cattedrale di Charleroi è stato dichiarato dall’Unesco Patrimonio dell’umanità, così come la miniera ora musealizzata della vicina Marcinelle, ormai un sobborgo del capoluogo, dove la mattina dell’8 agosto del 1956 un incendio a quasi mille metri di profondità uccise 262 «musi neri», 136 dei quali italiani. Attorno è il disastro. Nella bella e spaziosa piazza centrale due bar sono affollati a tutte le ore di gente di tutte le età e provenienze. Sono le quattro e mezza di un giorno feriale e nessuno sembra essere al lavoro, ma se si leggono i dati sulla disoccupazione in città non è certo strano.
Charleroi ha una media del 26,6 per cento di disoccupati, una percentuale mostruosa soprattutto se si pensa alle cifre del Belgio, dove la disoccupazione è al di sotto del dieci per cento. È un fenomeno intergenerazionale, che riguarda giovani e meno giovani: ex minatori, ex lavoratori dell’industria siderurgica, ex impiegati, figli di immigrati. Nella zona c’è un fenomeno psicologico recente, studiato da psicologi e sociologi, che sta creando diversi problemi nei giovani, fra i più in difficoltà del paese nel cercare lavoro: dopo la chiusura delle miniere intere famiglie hanno vissuto per anni con la disoccupazione dei maschi adulti, quindi i ragazzi più giovani hanno sempre visto i loro padri e nonni a casa, talvolta malati a causa della silicosi, con enormi difficoltà a ricollocarsi in un contesto lavorativo post-industriale dove tutto era cambiato. Dopo la chiusura delle miniere, oltre al lavoro queste persone hanno perso anche il loro ruolo sociale. Sono rimasti disoccupati, impossibilitati a trovare un altro lavoro, visto che nella vita erano quasi sempre stati sotto terra. Invisibili quando lavoravano, invisibili dopo, si potrebbe dire.
Un fenomeno simile riguarda l’impiego femminile, anche questo al di sotto delle medie nazionali e in generale molto al di sotto di quelle dell’Europa centro-settentrionale. Alcuni sociologi lo fanno risalire (ancora) alla particolare struttura lavorativa-familiare dei minatori: con gli uomini impiegati tutto il giorno sotto la mina, alloggiati in abitazioni precarie costruite per i prigionieri durante la Seconda guerra mondiale, le donne spesso rimanevano a casa e vivevano solo all’interno della comunità, lavorando solo raramente come rammendatrici di abiti da lavoro dei minatori.
Stile mediterraneo
La predominanza di turchi, marocchini, italiani di seconda e terza generazione rendono Charleroi una città dall’aspetto nordico e lo stile di vita mediterraneo. Sono le vittime della deindustrializzazione massiccia che ha reso Charleroi una sorta di Detroit d’Europa. Ex operai che vivono grazie alla generosità di un welfare sempre più in difficoltà e a un costo della vita calibrato verso il basso. È uno stato sociale che in effetti è già cambiato: le modifiche dell’ultimo governo allo chômage (la disoccupazione) sono state avversate solo dalla sinistra al di fuori del parlamento e in parte dai Verdi, mentre gli altri partiti le hanno considerate un correttivo inevitabile allo «sfruttamento» indebito dello stato sociale da parte degli stranieri e dei più poveri.
Charleroi rappresenta il ventre molle del Belgio ed è anche a causa della situazione dei suoi abitanti che metà del Paese, il Nord fiammingo e benestante, ha votato in massa un partito di destra, guidato dal sindaco di Anversa Bart de Wever, sulla base di parole d’ordine semi-secessioniste e dell’idea diffusa che grazie alle tasse pagate dagli operosi fiamminghi si elargiscono generosi sussidi ai meridionali, che così vivono alle loro spalle. È da qui che nasce lo stereotipo del vallone che non ha voglia di lavorare e che approfitta dello stato sociale, così simile allo stereotipo anti-meridionale che tante volte abbiamo sentito in Italia.
Naturalmente, come ben sappiamo, la situazione è più complessa. Ma è vero che Charleroi somiglia molto più a una città del sud Europa che a quelle vicine del nord. Può essere considerata un caso di studio di cosa accade a una città quando il modello lavorativo che l’ha ispirata (e che praticamente l’ha creata, almeno nel suo volto moderno) cessa di esistere. Scendendo lungo il corso che porta verso il canale che serviva a traghettare il carbone appena estratto fino al porto di Bruxelles, la «città bassa» è una lunga teoria di attività commerciali con le saracinesche serrate. Un ristorante ha le vetrine sfondate, i cartelli vendesi e affittasi si susseguono. Sopravvivono i bar, in discreta quantità, i negozi di telefonia e quelli di abbigliamento low cost, che espongono prezzi da supersaldi. Molti negozi hanno nomi italiani, talvolta poco probabili, a rendere ancora più stretto il legame con l’ondata migratoria che più di ogni altra ne ha cambiato il volto.
A Charleroi, nel cuore d’Europa, il lungo declino industriale ha prodotto solo macerie, e la crisi economica degli ultimi anni non ha fatto altro che affossare definitivamente ogni tentativo di rinascere puntando sul terziario prima, sulla riconversione verde oggi. Le cifre confermano il colpo d’occhio: più di un cittadino su quattro non lavora (il 26,2%), il 37% degli abitanti di quello che un tempo era un borgo rurale ed è divenuto città intorno alle industrie siderurgiche, chimiche, carbonifere, gonfiandosi di manovalanza immigrata da sfruttare, non ha neppure un diploma. L’incidenza di malattie legate al lavoro in fabbrica, prima su tutte la silicosi, è molto elevata e il 50% del patrimonio immobiliare versa in stato di abbandono. La quarta città del Belgio, la più grande della Vallonia, è un susseguirsi di fabbriche sventrate e vecchi palazzi in rovina, sbarrati. Sui muri, inviti continui alla “formation”, a chiedere un mutuo a un istituto di credito o ad accedere alla protezione sociale, all’alfabetizzazione per adulti. Un tentativo quasi disperato di salvare il salvabile.
Ex operai a sinistra
A differenza che nel vicino, e similmente malandato, nord della Francia, il cuore ex operaio della città continua però a preferire la sinistra alle sirene delle destre estreme e nazionaliste, in omaggio a una vecchia tradizione e forse pure in reazione al voto del nord. Ma il 41,21% tributato dagli abitanti di Charleroi al partito socialista del premier belga-abruzzese, e figlio di minatori, Elio di Rupo, non è bastato a mantenere i fragili equilibri politici. Il premier ha rassegnato le dimissioni il giorno dopo il voto, provocando un vuoto di governo che chissà quando si riuscirà a colmare. L’ultima volta, i belgi hanno impiegato 540 giorni per comporre l’esecutivo, al punto che il Paese era divenuto l’emblema di come si potesse veleggiare nel mare della globalizzazione pure senza timoniere.
Ma nel frattempo le sirene populiste si sono fatte più forti e il leader della destra fiamminga De Wever non esita a dire pubblicamente che ormai nord e sud devono andare per proprio conto e rassegnarsi a cogestire solo le poche cose che hanno in comune. Tra queste la capitale d’Europa, Bruxelles, énclave vallona a maggioranza francofona in territorio fiammingo, l’unica città in cui la destra non ha sfondato. Ma all’ora attuale l’unico ministero federale, quindi in comune fra valloni e fiamminghi, à quello della sanità: per il resto il Belgio è già un paese diviso, con doppi ministeri, doppi ministri e in sintesi un doppio binario amministrativo che comporta costi pubblici non indifferenti.
Secondo il Ptb, il partito comunista belga che qui mantiene un buon 9% di consensi e considera la città come un’ “oasi di resistenza al neoliberalismo” (sommando i consensi a verdi e socialisti vota a sinistra circa metà della popolazione), «Charleroi è vittima dagli anni ’70 di una crisi di cui la popolazione non è responsabile». Cominciata con la fine della «guerra del carbone» grazie alla quale il piccolo Belgio nel dopoguerra si era rilanciato. L’ultima miniera nel Belgio vallone ha chiuso nel 1984 e oggi quel passato semischiavistico, fatto di centinaia di morti sul lavoro all’anno, è definitivamente archiviato, ma quello è stato solo l’inizio: poi è toccato alla siderurgia, alla chimica e infine al terziario che pure si era sviluppato negli anni 2000 sulle ceneri del collasso industriale.
Tra il 2008 e il 2012 si sono contati 227 fallimenti. Un dato che non tiene conto di ristrutturazioni e delocalizzazioni: la Caterpillar ha pesantemente ridimensionato lo stabilimento di Gosselies, il suo secondo al mondo, e la vertenza ha lasciato per strada svariate centinaia di operai; la Carsid ha chiuso uno dei due altoforni licenziando mille lavoratori, la Arcelor Mittal, già condannata per una «morte bianca» e per non aver rispettato le norme ambientali ha deciso di chiudere lo stabilimento dove si produceva l’acciaio Inox. Una catastrofe che, per il borgomastro socialista Paul Magnette, «dimostra ancora una volta la necessità di ripensare la politica industriale a livello europeo».
Invece la multinazionale indiana è in pole position per rilevare la disastrata Ilva di Taranto, con magno gaudio del governo Renzi e del neocommissario Piero Gnudi, alla ricerca disperata dei quattro miliardi necessari per risanare e ripartire, un dato al ribasso se si tiene conto che l’ex ministro Corrado Clini, durante il governo Monti, aveva stimato in almeno tre milioni solo il costo delle bonifiche. Che ne sarà dell’acciaio italiano?
A poco sono serviti anche i tentativi di riabilitare la città dal punto di vista culturale. Il sindaco socialista nel 2012 aveva cercato di farne un polo teatrale di interesse nazionale: con la ristrutturazione del nuovo teatro di Vaudeville, dedicato alle rappresentazioni sperimentali e di avanguardia, si era cercato innazitutto di spostare il teatro al centro della città, dalla zona del Marignon al centralissimo Boulevard Tirou, e inoltre la ristrutturazione e i prezzi popolari avrebbero dovuto avvicinare le persone all’arte e alla cultura. I risultati sono stati disastrosi: la sera dell’inaugurazione, più di sessanta macchine nel parcheggio del teatro sono state danneggiate da atti vandalici, così il Vaudeville è stato costretto ad una chiusura temporanea di due mesi. Alla riapertura, la situazione era drammatica: il teatro, appena ristrutturato, era stato irrimediabilmente danneggiato, e non c’erano più i fondi per rimetterci mano. Così il nuovo théâtre de Vaudeville è oggi un monumento simbolico della città, così simile ai palazzi abbandonati e ai negozi e alle vetrine chiuse.
La casa c’è, ma non è agibile
A Charleroi uno dei problemi principali è quello della casa. Non che non ce ne siano, ma la gran parte dei palazzi sono stati costruiti prima del 1970, molti risalgono addirittura agli inizi del secolo, e versano in pessime condizioni. Si stima che un terzo delle giovani coppie non abbiano i soldi per comprarsi un appartamento e analoghi problemi li hanno gli ex operai. Al centro della campagna elettorale del Ptb c’è stata proprio la questione del diritto alla casa, con la proposta di un piano di edilizia popolare per dare un alloggio a quattromila persone.
Al di là del fiume Sambre, nella little Italy di Marcinelle, figli e nipoti dei minatori non vivono più nelle cantines, le baracche di legno attorno alla miniera dove i tedeschi rinchiudevano i prigionieri (il cosiddetto terril, letteralmente «terriccio», che creava un’unità quasi fisiologica fra il lavoratore immigrato e la miniera), e neppure nelle «case di ferro» sulla collina di San Nicola, hangar gelidi d’inverno e roventi nelle brevi estati. Oggi sono state trasformate in comode casette di mattoncini.
A Marcinelle il museo omonimo ricorda l’epopea dei minatori e la strage del 1956. Visitarlo crea una strana impressione: sembra piuttosto un elogio all’industria e la tragedia di Marcinelle un evento drammatico, ma casuale. Inoltre tutta la narrazione sembra girare intorno a due vuoti: il nome della ditta proprietaria della miniera e il processo. Tutti assolti i dirigenti, o condannati a pene minori. Di questo non c’è traccia nel museo, mentre si fa menzione dell’emigrazione – belgi proletari, prigionieri di guerra tedeschi, italiani e polacchi, portoghesi e spagnoli, poi turchi e marocchini, il Belgio ha considerato la mina come una credibile alternativa razziale e classista della società esterna – e delle dure condizioni di lavoro dei minatori.
È il paradosso di Marcinelle, ma in fondo della stessa Charleroi: una città totalmente post-industriale – nata e si potrebbe dire morta con l’industria, ma che nel tragitto ha lasciato centinaia di famiglie con sussidi sociali prima e con nulla poi – che ospita il museo dell’industria. Ma basta uscire dal museo e farsi un giro per capire che qualcosa, nella mal celata propaganda, non torni. La grande tradizione dell’industria belga è finita. Oggi, semplicemente, il lavoro non c’è più. E più di uno, fra i figli degli emigranti, pensa di ritornare nella terra dei padri.
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