Serge Charchoune, ritratto fotografico (part.) di Man Ray, 1922-’25, Parigi, Centre Pompidou
Serge Charchoune, “La mer éternelle”, 1949, coll. priv.

«Uno dei grandi pittori della nazione russa avrà il mio stesso nome»: ma, appartenente alla nobile schiatta degli émigrés russi a Parigi, Serge Charchoune resta fra essi il meno conosciuto, pur presente, a partire dal 1912, quando giunge nella città, in tutte le situazioni maggiori della storia delle avanguardie: cubismo, Dada, purismo. Nicolas de Staël, selettivo fino alla pazzia, feroce con i colleghi, nutriva un’ammirazione grande per Charchoune, che poteva essergli padre: «Egli ha inventato tutto… le sue intuizioni geniali sono state sfruttate dagli altri… è il più grande di tutti noi e bisognerà ben riconoscerlo, un giorno». Quel giorno non è mai arrivato, quantunque non sia mancata nei decenni un’attenzione critica assai partecipe, fino al mirabile catalogo ragionato (in cinque volumi) di Pierre e Margaret Guénégan (Lanwell & Leeds, 2007-’14; si prepara l’aggiornamento). Proprio di adesso, aperta fino all’11 luglio, è la prima mostra newyorkese postuma, Serge Charchoune: The Early Years, Rosenberg & Co. Gallery, a cura di Deborah Zafman e Merlin James. In Italia, dopo le aperture ammirate di Giulia Veronesi, si accorsero del pittore, a Milano, due gallerie: Toninelli (1962) e Lorenzelli (1974, 1996).
Le prime impressioni visive, russe, furono per tutta la vita. Era nato, nell’agosto 1888, a Buguruslan, cittadina della provincia di Samara, a ovest dei Monti Urali e sulle rive del Kinel affluente del Volga, dove i bagni d’estate, bramati, segnarono il suo destino di artista ‘d’acqua’, oltre che ‘di musica’. Orfano di madre a quattordici anni, aggiogato da un padre collerico ma mercante di stoffe, dal che, per il ragazzino, l’incanto degli intrecci geometrici e del vibrare cromatico, Charchoune (in russo Šaršun) si spostò, per gli studi secondari, ramo commerciale, nel «luogo più bello della Russia europea», Simbirsk, in seguito Ul’janovsk, sul medio Volga.
Non sopporta la scuola, rifugge i compagni; temperamento di sognatore, legge romanzi del fantastico e si volge alla totalmente natura, nel tentativo di sciogliere la violenza paterna incorporata, che andrà a confondersi, nelle future negoziazioni dell’operare pittorico, con la funzione tellurica del suo slavismo.
È a Mosca che Charchoune apre per la prima volta gli occhi sull’arte moderna: vi giunge nell’ottobre 1909, vi rimane fino al luglio del ’10. È elettrizzato dalle visite nei palazzi di Šchukin e Morozov, dove può vedere una tonante antologia dall’impressionismo al cubismo e sognare Parigi; si collega alle correnti più avanzate dell’arte russa: Il’ja Maškov, di cui frequenta lo studio, lo sorprende con l’audacia delle sue correzioni in colore puro; conosce Natalija Goncharova e il marito Larionov. Infatuato dei classici della letteratura russa, trova una corrispondenza esistenziale negli inquieti modernisti ‘d’argento’, Sologub, Blok e in particolare Andrej Belyi, che come lui cercherà una risposta all’assurdità del reale nella «scienza dello spirito» steineriana.
Dopo un breve ritorno sotto il tacco paterno, Charchoune patisce per due anni – pacifista – il servizio militare, finché, nel maggio 1912, non diserta e scappa a Berlino. Berlino è una tappa di avvicinamento, l’obiettivo è Parigi, dove arriva il 13 luglio dello stesso anno, consegnandosi con tutto sé stesso ai linguaggi della novità, subito selezionati secondo un’urgenza espressiva nel segno della costruzione e dell’ordine. A quest’ordine, che significa cubismo, affida il controllo della sua sensibilità esacerbata, la composizione delle sue istanze ancestrali, che lo avrebbero condotto più naturalmente verso le magie del colore. Una dinamica psichica fondata sull’antinomia e sul conflitto, sulla ricerca mistica di una pacificazione, che è alla base dell’arte singolare di Charchoune e delle sue, anche decise, virate formali.
Con il caratteristico prognatismo e l’espressione ostinata che gli conosciamo dalle fotografie di Man Ray, Charchoune fu colpito, al Louvre, da Delacroix e approfondì le sue nozioni cubiste visitando la galleria di Kahnweiler in rue Vignon e la collezione di Wilhelm Uhde, il quale ultimo si sarebbe in seguito incapricciato del suo cubismo «ornemental» e del suo purismo. Iscrivendosi, e siamo ancora nel ’12, all’Academie de La Palette, dove insegnavano Metzinger, Segonzac e, meno di frequente, Le Fauconnier, non deve stupire che Charchoune si legasse specialmente a quest’ultimo, per i suoi stretti rapporti con la Russia – dove sin dal 1908 era conosciuto nei circoli dell’avanguardia – e soprattutto per le segrete e potenti risonanze panteiste della sua pittura. Le Fauconnier spinse l’allievo in Bretagna, a Ploumanach, luogo dell’anima che gli aveva ispirato, sulla traccia di Gauguin, solitari paesaggi megalitici: dell’esperienza bretone di Charchoune resta un’interessante primizia.
«Qualcuno di cui devi tener conto è Charchoune»: fu André Breton a indirizzare verso il pittore russo Patrick Waldberg, che resta il suo critico più rispondente. Con la mediazione di de Staël, lo conobbe, primavera 1949, nel suo atelier alla Cité Falguière, affittato sei anni prima, «così malfermo e vacillante da sembrare una palafitta»: rimase impressionato, là dove avevano patito Modigliani e Soutine, dalla «povertà prossima all’indigenza», nella quale Charchoune «si muoveva (…) sovranamente come un signore» che abbia rinunciato di proposito a ogni bene materiale. Nei suoi ricordi, consegnati a uno splendido scritto per la mostra-omaggio del 1971 al MNAM di Parigi, Waldberg chiede a Charchoune che cosa dipingesse negli anni di adolescenza: «erano dei paesaggi… sì, dei paesaggi lirici», anzi – precisa dopo qualche ora – «mistici, piuttosto». Di quelle prove non è rimasto niente, ma tutta l’opera di Charchoune appare intramata – è la parola – di suggestioni mistiche. E che cosa fu, se non un risveglio mistico, la scoperta degli azulejos?
«Azulejos! Le piastrelle di maiolica dipinta hanno trasformato la mia concezione pittorica liberando in me la natura slava innata. I miei dipinti sono diventati cromatici e ornamentali». Nel novembre 1914, in seguito allo scoppio della guerra, Charchoune, insieme alla compagna di allora, la scultrice Hélène Grünhoff, si trasferisce a Barcellona. Nell’autobiografia, pubblicata nel 1949 da Michel Seuphor, egli ricorderà perfettamente la circostanza in cui, nella sua casa in faccia ai monti, fu irresistibilmente attratto da certa decorazione azzurra mozarabica, una scoperta persino più importante, artisticamente, dei rapporti che stabilì con il movimento dada, nella capitale catalana folto di presenze intorno a Picabia e alla rivista «391».
Rientra a Parigi nel marzo 1917. L’adesione a Dada non ha, per il contemplativo Charchoune, funzione distruttiva: la sua posizione è simile a quella di Crotti, altro dadaista laterale, che guarda la tabula rasa delle forme e dei valori da una sfera «spirituale» (Waldemar George, Jean Crotti et la Primauté du Spirituel, 1959).
«Siete pregati di assistere alla sepoltura del cubismo, che sarà esposto nella cappella ardente alla chiesa della Sainte-Cible (13, rue Bonaparte), ancora infante era caduto dal cavalletto…»: messa funebre 20 aprile 1921, celebrano Charchoune, «rabbin»; Tzara, «muezzin»; Ribemont-Dessaignes, «vénérable curé»; «chœurs nègres» di Cocteau. Con un sorriso che «rivela in lui la presenza di un folletto beffardo» (Waldberg), Charchoune non si sottrae alle performances baraccone dei dadaisti; la sua doppia firma, francese e russo (cirillico), nell’opera collettiva di Picabia L’œil cacodylate, 1921, è fra le più visibili, sotto il Terzo Occhio della Conoscenza, accompagnata dalla scritta «SOLEIL RUSSE». Ma quel che nella sua opera davvero resta di Dada, innestandosi nell’ornamentale, arricchendolo, è il gusto del capriccio meccanografico, di chiara derivazione picabiana, come si manifesta umoristicamente nella parte visiva del suo poema, l’unico scritto in francese (con l’aiuto di Soupault), Foule immobile (1921): un gusto che darà frutti spiccati, attraverso una delle riemersioni tipiche del suo procedere, nei paesaggi «elastici» 1927-’28. Qui la spirale e l’arabesco tipici di Charchoune si esprimono nudi, vivi e danzanti, quasi spinti fuori dalla superficie pittorica.
Il monito di Isadora
Charchoune è fra i deracinés russi che sentono l’attrazione dell’Ottobre, progetta di tornare in patria. Nel maggio 1922, al fine di ottenere il visto, parte per Berlino: stessa procedura aveva consigliato a Isadora Duncan. Ma a Berlino si arresta: in una serata di poesia organizzata da Majakovskij, Esenin e Kusikov incontra la Duncan di ritorno dalla Russia e le sue parole, che descrivono l’involuzione del… sogno, agiscono: «sente un potente vento che lo respinge dalla frontiera russa».
Resta a Berlino fino al luglio 1923 e qui mette a punto il suo «cubismo ornamentale»: alla base le «macchine ironiche» di Picabia, il cui dispositivo è utilizzato però in chiave eminentemente pittorica, per stabilire un producente scontro-incontro con il cubismo delle origini, di cui Charchoune recupera la tavolozza scura e ristretta. Risolti completamente sul piano, i dipinti berlinesi già impressionano per il senso prepotente di oggetto organico, dalla materia soda e ‘lavorata’, dalla luminosità intrinseca, che saranno le qualità distintive dell’intero corpus del pittore, pur così differenziato lungo le stagioni. Le tele di Charchoune «bisogna sentirle à bras-le-corps, entrare nei sottili ingranaggi…» (Seuphor).
Tornato a Parigi, se resta attivo nel milieu dadaista (gennaio 1924: collabora alla rivista «Merz» di Kurt Schwitters), Charchoune approfondisce le sue ricerche personali: verso il 1925 incontra, con l’antroposofia, il riflesso cosmico e animico del suo io; un altro incontro decisivo, nel ’26: Amedée Ozenfant! Fu Nadia Khodossievitch, futura madame Léger, a fare da tramite. Il bisogno di ordine aveva condotto Charchoune verso il purismo: voleva conoscere i fondatori, Ozenfant e Le Corbusier. Il primo – più votato alla pittura e, come Le Fauconnier, influenzato dalle esperienze russe – gli apre la via a un sublime modello proporzionale, euritmico, a una forma architettonica ‘di superficie’ entro cui trovare raccoglimento, distillare gli ardori lirici.
Ozenfant, colpito dalla qualità, presenta le nature morte di Charchoune, «cristalline o calde, discrete, melodiche, sensibili e intelligenti», in occasione della personale parigina del ’27, da Aubier. Come ha scritto Pierre Guénégan, Ozenfant provava «simpatia per quest’uomo ripiegato su sé stesso, silenzioso, tagliato in un blocco di pietra e al tempo stesso tutto nuances, delicatezza, nobiltà». Ma erano troppo diversi: Ozenfant amava calare il suo platonismo nel vivo delle circostanze mondane; Charchoune, dopo Dada, tornò nel suo proprio, la solitudine.
Come conferma la splendida cernita dell’attuale mostra newyorkese, nella vasta produzione di Charchoune la breve stagione purista è il vertice qualitativo. Un purismo personalissimo: immette nell’incanto sospeso delle nude e piatte geometrie la sua sensibilità materica; a volte spatola o gratta, creando rilievo, intercettando la luce, alcune porzioni di superficie. In qualche prova reintroduce il colore, con gamme acide ed effetti quasi lisergici, a preparare certi sensazionali sviluppi futuri.
Perché in Charchoune il colore agisce sempre, anche in assenza! Verso la metà degli anni cinquanta egli sembra, improvvisamente, dimenticarsene: fino alla morte, nel 1975, sperimenterà perlopiù sul bianco, ma questi quadri bianchi ispirati dall’acqua e dalla musica (Beethoven, «il mio direttore d’orchestra!»), queste trasposizioni rugose di onde sonore, sono ottenute secondo un metodo coprente: la preparazione è in vari strati cromatici e gradualmente viene dissolta nel bianco, che perciò ne risulta impuro, trattenendo, meglio incapsulando, l’anima del colore.
Pipe, cucchiai, relitti onirici
Ma quando il colore di Charchoune si esprime per quello che è… La disperante crisi degli anni trenta lo aveva costretto a lasciare i pennelli. Perse il suo mercante, André Level; sopravvisse grazie ai sussidi di disoccupazione intellettuale. Qualche metafisico paesaggio semi-astratto, gli arbres-maisons; qualche piccola natura morta ancora purista: scodelle, pipe, cucchiai, oggetti spogli, relitti onirici. Del 1933 è La liseuse, steineriana, irradiata, smaterializzata dalla sua propria luce nella panchina di un parco pubblico. L’opera si conserva al LaM di Villeneuve d’Ascq (Lille), donation Masurel, parte di un piccolo e sceltissimo insieme di opere di Charchoune, già appartenente alla collezione di Roger Dutilleul, colui che nel ’43 divenne suo mecenate, presentandolo al mercante Raymond Creuse e di fatto strappandolo all’ultimo stadio della miseria. La finezza di Dutilleul, ricordiamolo, si era fortemente orientata, dal 1928, sul russo bianco a Parigi André Lanskoy – da realista spontaneo, quasi naïf, a focoso tachiste –, che introdusse il giovane de Staël alla frequentazione di Charchoune.
Già con La liseuse cominciava a definirsi lo Charchoune maestro dei barbagli, degli aloni, dei riverberi che si impone negli anni quaranta, quando, in parallelo a un recupero mirato della griglia cubista, su toni di bianco e terra (Série de Violons), deflagra il colore nelle più audaci determinazioni. Il mare è un carosello cromatico: Cycle marin. Ma l’ormai lunga consuetudine con il rigore costruttivo della tradizione francese fa sì che le spirali e sciabolate e strisciate di luce, la sonorità a onde dei bianchi, viola, verdi smeraldo, arancio, blu elettrici, tocchi di colore giustapposti in un carnoso pointillism, trovino la struttura e il luogo: imprigionare nell’oggetto-tableau gli spiriti vorticosi della tradizione slava; fare di un’avventurosa ricerca nel seno delle avanguardie un campo di senso olistico e astrale.