Chapoval, cubismo medianico e astrazione dai lager
Riscoperte nell'arte: Youla Chapoval L’opera del pittore di famiglia ebraico-ucraina morto giovane (suicida?) nel 1951 fu, prima, rivisitazione fiammante del cubismo storico, poi dramma cromatico-«informel»
Riscoperte nell'arte: Youla Chapoval L’opera del pittore di famiglia ebraico-ucraina morto giovane (suicida?) nel 1951 fu, prima, rivisitazione fiammante del cubismo storico, poi dramma cromatico-«informel»
«Chapoval, un russo molto dotato, che un giorno è stato trovato morto nel suo letto, esponeva da Denise René e da Jeanne Bucher…». Nelle memorie di Michel Laclotte, lo storico dell’arte artefice del Grand Louvre e del Musée d’Orsay, staccano vivi gli anni di formazione e le peregrinazioni, tra il 1948 e il ’52, insieme all’amico di una vita Jean Coural, nelle gallerie d’arte contemporanea parigine, «sulla Riva sinistra e soprattutto sulla destra», in cui prendeva corpo la nuova scena della ricerca e del gusto dopo i disastri della guerra. «Un’altra ondata si era abbattuta sulla pittura, Nicolas de Staël, Hartung, e poi Soulages. Le mie preferenze andavano a questi pittori»… ma un piccolo posto nelle sue preferenze ce lo aveva anche quel russo, ucraino, che con De Staël non si era per niente inteso, trovato morto nel suo letto il 19 dicembre 1951: 32 anni appena compiuti.
Nato a Kiev nel 1919, Youla Chapoval fu di fatto pittore francese: la famiglia – borghesia ebraica, gioiellieri – si era esiliata a Parigi già nel ’24, sotto la minaccia dei terribili pogroms negli anni del caos post-rivoluzionario in Ucraina.
Ho familiarizzato davvero con l’arte di Chapoval vedendo le sue tele alla Galerie Le Minotaure, in rue des Beaux-Arts a Parigi, specializzata nel fantastico comparto dei russi-ucraini in Francia. Associandosi ad Alain Le Gaillard e Laurentin, la galleria ha messo in scena il pittore nell’autunno pandemico del 2020; è poi tornata sull’argomento, con un accrochage, nel gennaio del ’23.
All’epoca in cui lo aveva scoperto Laclotte, Chapoval si stava affermando, all’interno di quella che Charles Estienne denominò Nouvelle École de Paris, per la sua particolare declinazione dell’astrattismo lirico, con cui si era liberato, nel modo più personale, dei residui cubisti degli anni precedenti: anche oggi, tra i pochi affezionati, è questo probabilmente lo Chapoval che conta davvero. La «dispersione dinamica degli elementi» intervenuta a partire dal 1949; la precipitazione, negli ultimi due anni di vita, verso «il puro movimento del pennello e della pennellessa», verso lo «sprizzare» del «colore, che regna ormai indiscusso e sfida ogni tentativo di stabilizzazione formale» (Léa Bourdon), tutto ciò giustifica la sua presenza nella tradizione, così francese, dell’informale europeo, in quella linea, cioè, che lo rese, à bout de souffle, contemporaneo a se stesso.
Eppure… riguardiamo con calma, nel catalogo ragionato dell’opera dipinta (a cura di Évelyne & Marie-Laure Moisset, Les Éditions de l’Amateur, 2015), lo svolgersi del percorso: sorprende un altro tipo di originalità, la maniera temperamentale con cui Chapoval rivisita, nel biennio ’46-’48, dunque a oltre trent’anni di distanza, il cubismo delle origini; la sua capacità di rendere viva, presente, una vicenda ormai consegnata alla storia dell’arte. Un vento di freschezza scardina il tempo, saltano le partizioni, e la stessa categoria di epigono. In casi del genere, non così frequenti, il vero intralcio è l’automatismo critico, che impedisce di vedere, oltre lo zelo di adesione, la fiamma – fiamma che all’opposto aveva ben visto Picasso accogliendo Chapoval, 1938, nella cerchia dei suoi giovani amici e persino, sulla testimonianza di James Lord, relativa a un giorno del ’44, appendendo alla parete, in rue des Grands-Augustins, un suo disegno all’inchiostro di china, per poterlo «vedere quotidianamente». Un disegno che Lord aveva creduto dello stesso Picasso, periodo blu.
Plagiario? Come poteva Picasso accogliere un plagio, peraltro affiancandolo a una sua recente teletta, piccola natura morta di limone e bicchiere? Si tratta di un ben diverso fenomeno, battezziamolo «anacronismo attivo»: quando la proiezione in uno stile del passato è talmente medianica, devota, da mettere in ombra il referente.
Tanto più che Chapoval non si limita a Picasso, anzi, in soli due anni, compone una specie di antologia del cubismo storico, sulla base di precise esigenze espressive. Come non fu un epigono, non fu neanche un eclettico: è di sommo interesse il modo in cui questo giovane, bisognoso di una piattaforma stilistica, scavi nella lezione dei «cubisti da Salon», innanzitutto Roger de la Fresnaye, ma anche Gleizes, Metzinger, Lhote, compiendo un vero e proprio atto critico nella stagione in cui tale lezione, accusata di ambigui legami con l’arte del passato, cominciava a subire l’oblio in nome della ‘sublime’ ortodossia dei fondatori, Picasso e Braque – oblio da cui è riemersa solo a partire dagli anni settanta.
L’eleganza di La Fresnaye, la sua maestria nel giostrare i piani colorati, incanta Chapoval, al punto che, all’inizio del 1947, egli viene rifiutato dalla Galerie de France, che giudica le sue tele «troppo impregnate di La Fresnaye» e «troppo raffinate». All’opposto, un collezionista penetrante come Roger Dutilleul, che da sempre teneva d’occhio i russi a Parigi (Lanskoy, Charchoune, lo stesso De Staël), ne rimane intrigato e ne discute con l’artista, proprio nel ’47, in un appassionato scambio di lettere, dove Chapoval dichiara di ammirare in La Fresnaye ciò che presenta «di anacronistico rispetto a quest’epoca favolosamente volgare, che seduce».
Orientata e lincea, la cernita condotta da Chapoval sul repertorio del cubismo storico, di logistica non semplice a quei giorni (solo nel ’53 il Musée national d’art moderne, diretto da Jean Cassou, proporrà una prima sintesi), valse al pittore l’attenzione della galerie Jeanne Bucher, quanto di più credibile, allora, nella promozione dell’avanguardia – la fondatrice appena scomparsa, il testimone al nipote Jean-François Jaeger. Fu nella sede storica della galleria, boulevard de Montparnasse, che Chapoval ebbe la prima personale: novembre 1947. Sta esplorando il cubismo sintetico, particolarmente nel canone stabilito da Juan Gris, ma con un più di profondità, «degli ampi décalages (…) in cui le forme si isolano» (Jacques Lassaigne). Proprio in questo momento interviene una cesura, evidenziata da Christian Briand: «è come se l’artista prendesse à rebours la storia del cubismo», rimontando dal ‘sintetico’ all’‘analitico’. La varietà cromatica si riduce drasticamente a un camaïeu di toni terrosi, verdastri, bluastri, rialzati di bianchi che illuminano. Nelle prove più avanzate, di effetto solenne, prevale la superficie a griglia, sezionata da linee nere ‘Picasso 1910’. È la porta stretta verso l’astrazione, che presto (presto: in Chapoval tutto precipita!) emergerà con caratteri completamente diversi.
Nel luglio 1942, dopo il rastrellamento del Velodromo d’inverno, Chapoval, di famiglia ebraica, aveva riparato in zona libera, prima a Marsiglia, dove si era legato a Roger Van Gindertaël, suo critico di riferimento e sostegno affettuoso negli anni a venire, poi a Tolosa, infine a Marmande, Nuova Aquitania. Torna a Parigi nell’ottobre 1944, insieme alla futura sposa Jeanne Despujols, con cui aprono un ristorante in rue de Cluny, presto ritrovo di artisti e intellettuali, fra i quali spunta Georges Pompidou, che compera a Youla alcune tele, una delle quali figurerà, nel 1970, in un documentario televisivo sul fresco inquilino dell’Eliseo: «È il primo artista che ho acquistato. È morto giovane, troppo giovane».
La tragedia di Chapoval, una volta tornato a Parigi, era stata la notizia della deportazione della mamma Vera e di Mania, sorella maggiore. Non le rivide più, gli restava solo Bella, la sorella minore. «… come gioire davvero di questa pace rumorosa?», annotò il pittore nel Journal. Non gioì: dalle testimonianze degli amici, barricò nel segreto dell’intimità tutto il suo dolore. Il dolore di Youla si sarebbe cristallizzato nell’immagine finale della sua vita, come descritta dall’amica drammaturga Jeannine Worms: «la lampada del comodino accesa, (…) riposava di dorso, sul suo letto, Le Hussard Bleu (di Roger Nimier) aperto alla pagina che stava leggendo».
La morte precoce, probabilmente suicidio, avvenne nella casa-atelier di Montmartre, dove si era trasferito nel giugno ’51, lasciando il grande appartamento dell’avenue Montaigne dopo la separazione dalla moglie Jeanne. Ancora la Worms ha raccontato come il marito, per consolare Chapoval di un nuovo scacco con la Galerie de France, gli avesse acquistato una tela, dal rosso dominante, esponendola poi in soggiorno, e un ospite – siamo sul finire del ’51 – ne fosse rimasto oltremodo turbato: «“Questo dipinto odora di morte”, disse. Eravamo in novembre. In dicembre Youla non era più».
Come era giunto l’artista a questa specie di esistenzialismo cromatico? Sul finire del ’48 era intervenuta, nell’impianto cubista, un’animazione ritmica, timbrica, segni grafici staccati in cerca di assestamento, «sorta di macchine ludiche – ha scritto la Briand – che sembrano funzionare in autonomia». Vi si esprime la passione musicale di Chapoval, ammiratore di Stravinskij. Son quadri di questo tipo che gli attirarono l’attenzione della giuria del premio Kandinskij, di cui fu insignito, insieme a Marie Raymond (la madre di Yves Klein), nel 1949, e che gli valse la mostra, anch’essa in doppio, da Denise René.
Fra i giurati del premio, Charles Estienne, teorico e sostenitore dell’astrazione lirica in alternativa al linguaggio duro e puro, ostinatamente euclideo, dei concretisti, avrebbe giocato un ruolo, insieme a Hans Hartung, nell’ulteriore sviluppo dell’opera di Chapoval, presto coinvolta in un intenso sommovimento gestuale, di stampo grafico: «Tendenza sempre più pronunciata a realizzare tele, a partire da “abbozzi” su carta della dimensione della tela, d’un sol colpo» (Journal, novembre 1950).
Ma la gestualità si libera presto della componente grafica a favore di un’espressione punto cromatica in cui «le forme barocche (…) cercano il loro ordine, più organico che architettonico» (lettera a Van Gindertaël, novembre 1951). Prima di questo vibrante compimento negli ultimi mesi di vita, Chapoval era stato tentato, brevissimamente, da un ritorno alla figurazione, le sue opere non oggettive apparendogli – come si espresse – «troppo sicure» e tendenti al «meccanismo»: sintomo di una crisi, alimentata dal risucchio degli antichi maestri (Rembrandt) e non così diversa, forse, da quella che toccava negli stessi giorni il suo ‘nemico’ De Staël.
Ma infine… guardiamo Orbes, 1951: il «meccanismo» è in realtà liberazione effusiva di luci cromatiche, i bianchi, gli aranci, i neri, liberazione dai lager della Forma e della Storia.
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