Chantal Akerman, occhi blu capelli neri
Protagoniste Con "Jeanne Dielman" nasceva uno stile completamente nuovo. Nello stesso anno Delphine Seyring interpretava un destino non meno infelice in "India Song" di Marguerite Duras
Protagoniste Con "Jeanne Dielman" nasceva uno stile completamente nuovo. Nello stesso anno Delphine Seyring interpretava un destino non meno infelice in "India Song" di Marguerite Duras
“Ho voluto fare del cinema. Senza paura. Nell’innocenza.”, dichiarava non molti anni fa Chantal Akerman ripercorrendo la sua carriera, nata da un’ostinata volontà alla cui origine c’era stato un film di Jean-Luc Godard che l’aveva siderata: Pierrot le fou (1965). A quell’epoca la Akerman aveva solo quindici anni ed abbandonò la scuola per seguire una passione che la portò solo tre anni dopo al suo “esplosivo” film d’esordio: Saute ma ville (Salta,mia città, 1968) in cui lei stessa, mentre cucinava, mangiava e rassettava, perdeva man mano la coerenza dei gesti fino a mettere la testa nel forno e a farsi esplodere. Era quello un anno speciale, in cui sembrava che tutto dovesse saltare in aria, ed il cortometraggio in b/n della piccola realizzatrice belga in modo asettico ed imprevedibile esprimeva la ribellione del suo tempo. In quel film così semplice, nella sua ‘innocenza’, c’erano in sintesi il rifiuto dell’attività domestica e del mondo com’era organizzato, la dimostrazione di poter fare un film senza grandi mezzi, l’uso del proprio corpo offerto alla camera e una soluzione finale che scioccava il pubblico.
Con La chambre e Hotel Monterey (entrambi del ’72) e con Je, tu, il elle (Io, tu, lui, lei, 1974) Chantal continuava ad esplorare se stessa e la realtà circostante contrapponendo caparbiamente la “lentezza” dei suoi ritmi d’osservazione, del suo tempo interiore, alla velocità e alle trame del cinema di consumo. Se in Hotel Monterey aveva percorso dal pianterreno al terrazzo, alla ricerca della luce, il vecchio albergo newyorkese con i suoi abitanti decrepiti e l’anonimato dei suoi interminabili corridoi, con Je, tu, il, elle (Io, tu, lui, lei, 1974) metteva in scena se stessa e le sue angosce che culminavano in due incontri esplicitamente sessuali, il primo con un camionista (lui) e il secondo con la sua ex amante (lei), con aperte allusioni alla sua vita privata. Il tema dell’alienazione e della casualità domina il film, mirabile per la capacità di dar forma all’informe tracciato delle contraddizioni nevrotiche tra chiusura al mondo e smania di vivere.
Un significativo contributo all’attonita visione di un mondo estraneo, grigio e senza speranza fu la sua esperienza newyorkese, che la mise in contatto, oltre che con il cinema di Jonas Mekas, di Andy Warhol, Stan Brackage e degli altri autori dell’underground, con l’arte visiva delle performance e delle installazioni che proliferava nelle gallerie di Soho. Nei primi anni ’70 Chantal Akerman elaborò un suo stile descrittivo, privo di personaggi e di storie, che metteva al primo posto il far cinema, la visione, mettendo fuori campo se stessa per identificarsi completamente con l’obbiettivo e i suoi movimenti.
Ma il cinema era anche altro, e fu con Jeanne Dielman, 23, rue du Commerce, 1080 Bruxelles (1975) che la Akerman diede la prima prova di un film narrativo in cui aveva trasferito la lenta esplorazione del suo sguardo sul quotidiano di una borghese ordinata e dignitosa (Delphine Seyrig), “osservando” metodicamente per tre giorni la vita di una donna che si prostituisce per mantenere il figlio adolescente e reagisce alla fine uccidendo un cliente . Per la sua originalità, per la sua impeccabile accuratezza, per la naturalissima performance di Delphine Seyrig, il film ebbe successo in Europa e negli USA, e soprattutto nei festival femminili che proliferavano allora a livello internazionale. Nasceva uno stile completamente nuovo, e da più parti si teorizzò l’uso della lentezza come cifra stilistica del cinema ‘al femminile’, adottata anche da autrici italiane (Giovanna Gagliardo con Maternale, ad esempio) con esiti non molto entusiasmanti. Ma nessuna riuscì a far suo il rigore sotteso a quella ‘lentezza’, quel tocco che rendeva visibile la noia e l’angoscia di un’esistenza femminile come tante.
Nello stesso anno Delphine Seyrig impersonava Anne Marie Stretter in India song di Marguerite Duras, l’evocazione di una donna di origine italiana vissuta a Calcutta poco prima della fine dell’impero coloniale francese. Un clima, un’epoca e un livello sociale completamente diversi, in cui però il destino femminile non appariva meno infelice. Anche qui l’insistenza dei piani/sequenza sulla durata dell’azione imprimeva al film una lentezza che era in questo caso estenuazione e mancanza di futuro, rassegnazione e desiderio di evasione. Con India song Duras inaugurava la pratica di un testo indipendente dalle immagini, voci che aleggiavano in un luogo indeterminato, brandelli di frasi affioranti da un’anonima memoria che allontanavano il visivo nel tempo conferendogli il fascino e la risonanza del ricordo.
Quando i due film di Akerman e di Duras venivano proiettati nello stesso contesto, come avvenne al Festival Il gioco dello specchio di Firenze nel 1979, mostravano le loro affinità: cambiavano i tempi e le circostanze, ma non la condizione femminile, comunque dolorosa. Un dolore senza drammi, ma costante e mimetizzato nella ‘normalità’ del vivere, che spingeva Anne Marie al suicidio e Jeanne all’omicidio.
Qualche anno più tardi Duras avrebbe scritto uno dei più bei testi poi tradotti in film, quel Aurélia Steiner Vancouver (1979), in cui faceva parlare una ventenne ebrea dagli occhi chiari, innocenti, che, in una disperata invocazione si rivolgeva al padre morto giovanissimo in un campo di concentramento.
I genitori di Chantal Akerman, ebrei di origine polacca, erano fuggiti in Belgio per sottrarsi all’occupazione nazista prima della sua nascita , ma i nonni e la madre non avevano evitato la deportazione ad Auschwitz prima della liberazione. La piccola Chantal aveva lo sguardo azzurro e “il peso della diaspora nel DNA” – come afferma in un’intervista – benché in famiglia nulla si dicesse di quel passato. Di qui sicuramente la mancanza di un luogo d’origine su cui fondarsi e la vita di déraciné di un’artista il cui riferimento è sempre la madre, custode dei legami familiari e fonte di affettività sino all’ultimo film a lei dedicato: No home movie (Non un film di famiglia), presentato all’ultimo festival di Locarno.
Nel ’77 le sue lettere da Bruxelles lette dalla stessa regista avevano costituito la colonna sonora di News from home (Notizie da casa), un film che iniziava all’alba nelle strade di New York ed inanellava riprese della città nel corso di tutta una giornata, per finire al tramonto sul ferry boat di Staten Island che si allontanava lentamente dallo skyline di Manhattan con gli alti grattacieli del World Trade Center ancora in piedi. Le riprese della città, del suo traffico e della popolazione mista, dei negozi e della metropolitana, scandite in sequenze asettiche, davano tutto il senso dello spaesamento, dell’estraneità di un luogo alieno, come nei dipinti di Hopper, mentre la voce della madre parlava della famiglia, delle nascite, dei fidanzamenti e delle separazioni, lasciando intravedere una vita lontana, un nido caldo ma limitante, un’esistenza lasciata alle spalle che strideva terribilmente con la dimensione anonima e dura della città americana. Verso la fine del film le parole si perdevano, finché il loro flusso taceva, sostituito dal grido dei gabbiani sulla scia del battello, che diventava la voce perduta di Manhattan che si allontanava nel grigiore di un tramonto senza sole. Malgrado la diversità del contesto, l’uso della voce off coincideva ancora una volta con quello adoperato nei cortometraggi da Duras, che negli ultimi film finì poi per privilegiare la voce rispetto ad un’immagine sempre più rarefatta, sino ad approdare allo schermo nero. Tra l’altro, ne Les mains négatives (Le mani negative, 1979) anche Duras percorreva la città – in questo caso Parigi dal tramonto all’alba – con lunghi piani sequenza che mostravano le grandi arterie e la Senna mentre la voce suggestiva dell’autrice parlava delle prime impronte lasciate dall’uomo nelle grotte maddaleniane e dei nuovi ospiti di colore che spazzavano la città all’alba per prepararla alla vita del giorno.
Le due autrici, sebbene di diversa generazione, rappresentarono in ogni caso con la loro estetica il desiderio delle donne che negli anni ’70 videro nel cinema uno strumento privilegiato per esprimere la loro esigenza di cambiamento e l’invenzione di nuovi stili nell’arte e nella vita.
Fu nella primavera dell’82 che incontrai per la prima volta Chantal Akerman a una rassegna di cinema femminile organizzata a Catania, dove le numerose e pesanti pizze di Jeanne Dielman furono portate in aereo da Parigi come bagaglio a mano da una volenterosa giornalista. Chantal mi fece subito pensare ad Aurélia, malgrado la statura quasi infantile. Ricordo il suo sguardo acuto e assieme sperduto, e gli occhi chiari sotto il caschetto di capelli neri. Tra le molte cineaste di diverse nazionalità, lei era forse la più giovane, timida, minuta, come a disagio, estranea al gruppo. Chiese di non parlare in pubblico e rinunciò a presentare i suoi film, cosa che apparve assurda in un momento come quello in cui dopo lunghi silenzi le donne avevano finalmente la parola. La sua ritrosia non fu capita, in un contesto in cui tutte si sentivano forti perché spalleggiate dalla solidarietà delle altre. In realtà, ripensando a quel contesto, oggi mi rendo conto che Akerman – come del resto Duras – non sentiva la dimensione femminista perché, come ogni autore che si rispetti, rifuggiva dalla programmaticità insita in ogni lotta ideologica. Aveva fatto il suo film più importante con una troupe di sole donne, ma aveva avuto dei problemi perché non aveva potuto sceglierle lei, ed aveva constatato che non bastava soltanto essere donne per lavorare bene in un film. Eppure, come era accaduto per Duras, molte, moltissime in quel periodo si erano riconosciute nei suoi personaggi, e per la prima volta avevano goduto di un cinema che condividevano in pieno e che era venuto a riempire un vuoto, ad agitare il fantasma della libertà davanti agli occhi di chi desiderava un modo diverso di vivere la femminilità. Perché un vero artista recepisce inconsciamente le istanze del suo tempo ed anticipa altrettanto inconsciamente i nuovi orizzonti.
Anche in un film apparentemente più ‘commerciale’ come Les rendez-vous d’Anna (Gli appuntamenti di Anna, 1982), con un’attrice affermata come Aurore Clément e una buona distribuzione nelle sale, Akerman restò fedele al suo stile essenziale e rigoroso. Era un film in qualche modo autobiografico, che raccontava il peregrinare della protagonista da una città all’altra per presentare il suo lavoro. Un film fatto di incontri freddi, un film sulla solitudine delle stanze d’albergo, diverse eppure tutte uguali. Anna parlava poco, si esprimeva solo attraverso l’azione, e più spesso attraverso la mancanza d’azione e l’ascolto degli altri, che comunque appartenevano ad un mondo diverso, sconosciuto e distante. Anche qui un incontro con la madre (Lea Massari), mentre la sua vita è sempre altrove, in un viaggio senza fine che le impedisce di entrare in contatto con gli altri. Il film non piacque a coloro che avevano amato Jeanne Dielman e che rimproverarono alla regista le concessioni al cinema tradizionale. Fu considerato un fallimento dalla produzione, ma sua misura, la sua essenzialità e il suo stile restano, malgrado l’impianto narrativo, come segno ulteriore della piccola ‘ebrea errante’ che è stata Chantal Akerman.
Nella sua lunga carriera Chantal Akerman ha attraversato i generi e i paesi, in un’erranza che è stata la sua maggiore caratteristica. Ciò non le ha impedito però di darsi la morte, come Anne M. Stretter, come la ragazzina del suo primo film, come tutti coloro che – si dice – amano troppo la vita.
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