Visioni

Chantal Akerman, filmare il segreto del tempo

Chantal Akerman, filmare il segreto del tempoChantal Akerman

Cinema Un libro di Ilaria Gatti con Alessandro Cappabianca sulla regista belga ne esplora la poetica in un contrappunto di voci. Il racconto dei film, stralci di interviste, i riferimenti a altri ambiti restituiscono la tensione della sua ricerca

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 19 gennaio 2020

Tra le altre cose – il racconto limpido di film spesso inenarrabili, privi di trama, come intorpiditi in dilatazioni spazio-temporali, in fissità quasi catatoniche di macchina; rassegna di oggetti, luoghi, individui spaesati nel lancinante procedere del mondo; il riferimento ad altri ambiti (teatro, letteratura, video-arte); e una documentazione bibliografica e filmografica che va dai primi, topici cortometraggi alle installazioni a multischermo – quello che più colpisce nel libro Chantal Akerman. Uno schermo nel deserto di Ilaria Gatti, con la partecipazione di Alessandro Cappabianca (Fefè editore), è la sovrapposizione delle voci in un contrappunto che rilancia in continuazione la lettura. Appunto la voce dei due autori, come dire, documentale e coinvolgente al tempo stesso; e quella di Akerman, tratta per lo più da interviste, che spesso assume una forma così sinuosa e scolpita da sembrare poesia, distico elegiaco, strofa confessionale alla maniera di Sexton o di Plath, per restare in ambito americano, dove Akerman s’integrò entusiasticamente alla scena del cinema sperimentale, accostandosi soprattutto al tipo di sguardo di Michael Snow e del suo La Région Centrale.

UN AFFIORAMENTO di voci, quasi nenie o giaculatorie ebraiche che si presentono, si orecchiano a stento nello sgranarsi dei film, bisbigli (come quelli incomprensibili in D’Est, poi sommersi dall’urgenza e opacità della materia cinematografica) da cui a un tratto si distingue prepotente e languente, lirico e intimo, il dettato di Sylvia Plath nel capitolo terzo intitolato La madre, prefigurandone il destino tragico, non di autodistruzione ma di auto-lenimento, che poi sarà di Akerman stessa. Si tratta del film Letters Home del 1986, tratto da un testo teatrale di Rose Leiman-Goldemberg in cui le lettere tra Plath e sua madre, Aurelia Schober, sono la base per un dialogo tra la narratrice, Aurelia, e una specie di spettro che s’aggira sulla scena, Sylvia, irrequieta, cangiante (proprio d’abito, nei vestiti, oltre che nell’umore, a scandire le varie fasi dell’esistenza della poetessa) dentro uno spazio diradato, sfibrato dal persistere dell’inquadratura, cioè brulicante di vuoti, silenzi, ma anche di musica, tra Schumann, Debussy, Prokofiev ecc.; preludio a confessioni che così si imprimono una volta per tutte sulla pagina: «Mi sono sottoposta a un’esperienza abbastanza breve e traumatica di elettroshock somministrati in malo modo tramite un ambulatorio. Ben presto il mio unico dubbio era diventato quello dell’ora esatta e del metodo per suicidarmi… Allora ho tentato di annegarmi, ma non funzionava; la carica vitale puramente fisica è maledettamente forte…».

Confessione (e trascrizione) che è centrale nel libro e permutabile; nell’ideale planisfero poetico, artistico, quello della Kultur, che tiene insieme esperienze consimili in tempi e luoghi differenti, e s’eleva e allo stesso tempo s’intreccia al roteare e alle miserie della crosta terrestre, potrebbe essere di Antonia Pozzi quanto di Cristina Campo o di Pizarnik (l’urlo di una voce assoluta, anche ad di là dei generi), e s’incarna ora alla vicenda e all’opera di Akerman, proprio al suo corpo così lucente, levigato, denudato, all’animalità di un esserci che è quello di Je, tu, il, elle e ha a che fare con il filmare, con il porsi di fronte alla macchina da presa per lasciare che essa declami laconicamente e disperatamente la lacerazione quasi schizofrenica del soggetto e il non senso, il nulla lancinante d’esistere.

 

IN UNA NOTA su Je tu il elle, stralcio di un’intervista alla regista: «Quel personaggio esprime, gesto dopo gesto, con una sorta di decisione segreta, una disperazione muta, prossima all’urlo», che non ha solo valore biografico o mito-biografico, ma è già teoria dell’immagine, teoria delle sagome, ombre fantasmatiche (come quella del «je» proiettata sulla parete, la notte) che si muovono silenti sullo schermo, o stanno ferme nella loro dolorosa ottusità. Che si dilata a ogni inquadratura, facendo sentire il tempo, quasi solidificandolo nel persistere macchinico della ripresa «che resta spesso fermo sull’oggetto fino a forzarne la realtà, fino a giungere a qualcosa di segreto, fino a disegnare i contorni della sua ombra interna», nella splendida definizione di Gatti-Cappabianca, ma che sarebbe potuta essere scritta dal Montale critico di sé, della sua poesia metafisica.

È l’esperienza di un film come Hôtel Monterey in cui risuona l’ingiunzione del «nulla accade» che Bazin aveva coniato per riferirsi all’essenza del neorealismo, a personaggi e contesti decentrati o insignificanti, tempi morti, diluizione della trama ai limiti dell’astrazione. Un niente voluminoso, pieno, muto che è anche quel «nulla da dire» dei genitori di Chantal Akerman, sopravvissuti all’olocausto: «E se loro, i miei genitori, volevano dimenticare il passato e quindi non avevano nulla da dire e da mostrare, io avrei parlato di questo nulla». Ma è un nulla che in questo cinema trascende l’occasione (la denuncia dello scempio, l’indicibile): va oltre la Storia e aderisce all’assolutezza, universalità dell’esserci di cui il cinema è specchio complesso, convesso; specchio di un’identità franta, deformante, morta e vegeta nei tempi morti della ripresa e del misterioso, inconsulto languire delle cose.

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