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Chalástra, l tomba macedone con il fulmine alato

Chalástra, l tomba macedone  con il fulmine alatoChalástra, oggi Ágios Athanásios, presso Salonicco, Tomba III, III sec. a.C., particolare dell’affresco col militare che impugna la lunga lancia caratteristica della falange macedone

Le mie rovine Chi era sepolto nella III tomba di Chalástra, presso Salonicco? A chi fa la guardia la sentinella con la «sarissa», nell’affresco ?

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 6 agosto 2017

La «mia rovina» è una scoperta: a Chalástra, Salonicco. Per arrivarci, dovrò partire dall’inclusiva, affascinante avventura ellenica di Alessandro Magno, che derivava dalla visione intercontinentale del maestro Aristotele e dal cosmopolitismo di Diogene, il filosofo cinico. I «Compagni» (Hetaîroi), vissuti accanto ad Alessandro dalla corte di Pella ai termini dell’immane conquista (Anatolia, Egitto, Mesopotamia, India), diventano formalmente i diretti «Eredi» (Diádochoi), dopo la morte di lui a Babilonia (10 giugno 323), ma privati dell’insostituibile protagonista, si affrancano da ogni norma etica, ciascuno alla sfrenata conquista del potere personale, con l’eliminazione fisica dei rivali. Si apre nella storia una devastante età dei Diàdochi (323-281), con i loro non omologabili temperamenti. Vi corrisponde, nel campo artistico, la generazione della «maniera»: imprevedibile anche questa, per la varia attività dei molti figli e/o allievi, lasciati dai maestri dell’età classica. Tale fase, a prima vista rarefatta, si manifesta in termini concreti ora che al di là della confusa denominazione degli artisti – Teodoro di Samo, Teoro, Teone di Samo (questo ammirato da Quintiliano per le visiones o phantasíai) – abbiamo identificato e storicizzato nella giusta luce le composizioni di alta portata antiquaria, recuperate fortuitamente tra gli originali in Macedonia e le copie dall’area vesuviana o in Roma.
La parola di Plinio il Vecchio
Tra i primi, funzionali accostamenti di un pittore a un Diádoco, è quello segnalato da Plinio il Vecchio (35, 110), che pone Filosseno (nativo di Eretria, nell’isola di Eubea) al servizio di Cassandro (figlio di Antipatro, governatore della Macedonia durante la spedizione di Alessandro). Filosseno è allievo dell’ateniese Nicomaco, con una particolare inclinazione tecnica. Plinio: «Nicomaco ebbe come discepoli il fratello Aristone e il figlio Aristide, e Filosseno di Eretria, la cui tavola, da non posporre a nessun’altra, dipinta per il re Cassandro, rappresentava la ‘Battaglia di Alessandro contro Dario’. Egli stesso dipinse anche una ‘Lascivia’ nella quale tre Sileni fanno l’orgia. Filosseno, seguendo la velocità del maestro Nicomaco, trovò certi procedimenti ancora più brevi per dipingere». La Battaglia di Filosseno non è quella di Gaugamela (331), immortalata dal mosaico di Pompei (a Napoli, Museo Archeologico Nazionale), da tempo assegnata ad Apelle. La «velocità» (incompatibile con la miniaturistica analisi della scena bellica che ci è pervenuta) si manifesta invece nella grafica lasciata da Filosseno: il ritmo creativo della nuova generazione, sulla quale siamo ulteriormente avvertiti attraverso la ricostruzione storica e archeologica.
Cassandro fondò nel 316 la città fortificata di Cassandria nella penisola Calcidica. Nel 1984 lo scavo della necropoli ha rivelato la Tomba II, all’inizio della nuova pólis. La camera funeraria era dotata di due letti in marmo di Paro, decorati a tempera con lo sposalizio di Dioniso e Arianna, a gloria della coppia cui era destinata la sepoltura. Adeguato al giudizio sulla rapidità del pittore è l’arioso disegno del mito nuziale, dove il Sileno recumbente che solleva il rhytón (corno potorio) è analogo a quello che alzava una kýlix («calice») nella Lascivia dei Sileni, riferita allo stesso Filosseno da Plinio: oggi riconosciuta nella scena incisa sul retro di uno specchio in bronzo da Preneste, ora a Berlino. Nel Sileno di Cassandria la linea non chiude su se stessa, come nell’insuperata classicità di Parrasio (Plinio, 35, 67), bensì abbozza effimere e «barocche» espansioni (il folto pelo canuto sulle braccia del selvatico dèmone). Si aggiunga la concomitanza documentata da Ateneo, che anche Lisippo era stato convocato dal re epònimo alla fondazione di Cassandria, per il progetto di un’anfora fittile che rilanciasse sul mercato mediterraneo il vino di Mende. Il contenitore fu realizzato partendo dall’osservazione di anfore diverse, atte a suggerire dettagli per la sintesi promozionale: ciò che in sostanza faceva rivivere dalla classicità il criterio selettivo di Zeusi per la bellezza di Elena, nella tavola al Tempio di Hera Lacinia, composta con le grazie esibite dalle cinque fanciulle nude di Crotone (o Agrigento, Plinio, 35, 64).
Il bronzista e il pittore
L’intervento di Lisippo accanto a Filosseno è un rinnovato, producente scambio tra il bronzista e un pittore, che ricalca quello tra Lisippo e Apelle, divenuto proverbiale, quasi correzione fraterna, nella visione di Sinesio vescovo di Cirene: «Lisippo conduceva Apelle davanti ai suoi disegni e Apelle Lisippo». Ne consegue che Filosseno dipinge a Cassandria un’ironica imitazione dell’Eracle in riposo di Lisippo, nel tipo detto di Argo: ciò per dar vita all’Eros giovinetto che ha sottratto le armi all’eroe! Il paradosso serve a sua volta per comprendere l’Eracle privato delle armi, nella successiva produzione dello stesso Lisippo. In relazione alle imprese del figlio di Zeus – plasmate nel 314 in Acarnania (pur sempre committenza di Cassandro), e trasferite a Roma il 194 a.C. – veniva contemplata da Lisippo anche la melanconia dell’eroe assiso, vinto e disarmato da Eros. Come sarebbe accaduto per altri capolavori di Lisippo, ormai manierista di se stesso, anche l’Eracle vittima di Amore fu tra i bronzi spostati da Roma a Costantinopoli, e qui fusi o rapiti dai Crociati del Doge Dandolo nel 1204.
Uno spettacolare traslato manieristico di Filosseno nella Tomba di Cassandria, è infine la traduzione grafica del Dioniso recumbente, a sfida del celeberrimo capodopera della classicità scolpito da Fidia: il dio adornava l’angolo sinistro del frontone orientale del Partenone. Uguale è la flessione del gomito sinistro nell’appoggio su un risalto coperto dal mantello, mentre il braccio destro (mutilo nel marmo) è conservato dalla pittura, salvando ai nostri occhi l’effettivo attributo del Dioniso di Fidia, che innalzava il tirso all’avvento di Elio sull’orizzonte, nel mistero mattutino della nascita di Atena dalla testa di Zeus.
Motivo di assoluta novità è la scoperta dell’identità dell’emblema dipinto sullo scudo rosso, segnalato dalla lunga sarissa della sentinella piangente sulla facciata della Tomba III di Chalástra, presso Salonicco. Il fulmine di Zeus, qui munito delle ali dell’Aquila, è la traduzione figurata dell’epiteto Keraunós («fulmine» di guerra), che si era dato Tolemeo, figlio del re Tolemeo I Sotér, «Salvatore», e di Euridice. Escluso in Alessandria dalla successione dinastica dei Làgidi, trovò accoglienza da parte di Seleuco I Nikátor («Vittorioso»), che controllava la Mesopotamia: insieme a lui partecipò alla vittoria di Kouroupédion in Lidia (inverno 281) su Lisimaco di Tracia, che vi perse la vita. Dopo pochi mesi il Keraunós uccise di sua mano il benefattore. Impostando il proprio potere in Macedonia, ottenne l’acclamazione dell’esercito e giunse a dichiararsi vendicatore di Lisimaco, contro l’evidenza storica. Cercando invano di arrestare una puntata dei Celti attraverso la penisola Balcanica, cadde combattendo in campo aperto (inizio 279).
L’eccezionale scudo con l’emblema araldico del fulmine alato, sulla porta della Tomba di Chalástra, consente di dare il nome di Tolemeo Keraunós al condottiero sepolto nella camera funeraria, dove c’erano i frammenti di una spada. La sentinella, dipinta a destra del portale d’ingresso, è armata della lunga sarissa adottata dalla falange macedone: il reduce, avvolto nel manto invernale, alza la stoffa per nascondere il volto in lacrime. Anche gli eroi omerici a volte piangevano. Qui c’è il compianto per un discutibile condottiero.

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