Chaim Grade, ironiche e pittoresche, due storie di ottocentesca affettuosità ebraica
Letteratura yiddish «Fedeltà e tradimento», da Giuntina
Letteratura yiddish «Fedeltà e tradimento», da Giuntina
A differenza di altri scrittori yiddish del Novecento, Chaim Grade ha un solo tema, Vilna, e un solo personaggio, se stesso: «Ho sempre parlato di me nei miei romanzi in tutti gli eroi ci sono io, comprese le donne, i gatti e persino gli alberi», confessa ad Abraham Bernstein. E Vilna e Grade sono i protagonisti anche delle due diversissime «prove d’autore» raccolte in Fedeltà e tradimento (bella traduzione dallo yiddish di Anna Linda Callow, che firma anche la postfazione insieme a Tommaso Bellini, Giuntina, pp. 200, € 18,00) – un «saggio» poetico e un racconto di tempi lontani.
La mia contesa con Hersh Rasseyner, scritto da Grade nel 1951, è un testo unico e geniale nella letteratura yiddish contemporanea. Meyn krieg lo titola bellicosamente l’autore narrando incontri e scontri di due allievi della yeshivà dei piissimi musernikes di Novaredok, Chaim Vilner e Hersh Rasseyner, separati da esperienze di vita e concezioni religiose: Chaim è (come Grade) un artista che ha abbandonato gli studi rabbinici per confrontarsi con opere profane e con il dolore degli uomini, mentre Hersh è un rigido uomo di Dio, a capo di una solida yeshivà.
Moderna versione della disputa tra le fedi, questo dialogo teologico coinvolge figure che hanno qualcosa di eroico e di antico: caparbi e idealisti, si sottraggono al sistematico sradicamento dei personaggi di Bashevis Singer e difendono in nome della legge e del cuore la loro visione dell’ebraismo. A rendere vibrante un confronto così inattuale per il lettore italiano è l’ombra lunga della shoah e l’impronta del conflitto vissuto da Grade quando, abbandonato il musar, entra con scrupolo e desiderio nel mondo della realtà e dell’arte. Là, in quel mondo, «perfino il malvagio non è giudicato soltanto per le sue nude azioni, ma sulla base delle sofferenze che patisce nella guerra con se stesso e con il mondo intero a causa delle sue passioni».
La novella che apre il volume, «Il giuramento», ha invece la «classica» tessitura ebraico orientale che continua ad affascinare gli scrittori yiddish anche dopo la sua distruzione per la violenza degli uomini e le contraddizioni della modernità.
Nella abituale cornice di Vilna, un padre chiede in punto di morte ai figli, istruiti e moderatamente emancipati, una singolare conversione: il maggiore, Gavriel, deve giurare di lasciare l’Università per dedicarsi a studi religiosi con un oscuro rabbino, mentre la figlia è pressata perché sostituisca un fidanzato sfaccendato e, per di più, comunista con un diligente allievo di yeshivà. I giovani, tra dubbi e rimorsi, finiranno per seguire la loro strada allontanandosi frastornati e scontenti dalla città e dalla promessa, mentre la madre, seguendo le ultime volontà del marito, avrà la gioia di trovare un nuovo santo e strampalato marito.
Sono piccole storie narrate con una affettuosità ottocentesca, qualche pennellata di pittoresco e una vena di ironia che la distanza dei tempi e dei luoghi rende leggera. Impermeabile al romanticismo del tardo Sforim o alla fantasmagoria di eros, smarrimento e demonia che tanto appassiona i lettori di Singer, Chaim Grade non sconfina mai nell’irreparabile.
Il suo «Giuramento» è una splendida variazione sul tema della fedeltà: a famiglia, comunità, sogni, destino, ma soprattutto alla religione dei padri e alla sua legge.
Una insistenza che avvicina, più di quanto appaia, il trattenuto Grade all’abissale Kafka nella ricerca sempre irrisolta di un equilibro tra l’uomo e la norma: «Ho posto la mia mente a ricercare e a indagare con saggezza su tutto ciò che è compiuto sotto i cieli. Questo è un tema doloroso che Dio ha dato ai figli dell’uomo perché ci si arrovellassero» è scritto in Qohelet (1,13).
Come in un altro racconto di Grade, La abbandonata, l’autore sembra suggerire – oltre la testimonianza – un invito tutto chassidico alla felicità nella consapevolezza che l’ebraismo abbia un senso profondo solo nella gioia di viverlo. «Scavando dentro di noi, – afferma Chaim Vilner in La mia contesa con Hersh Rasseyner – vogliamo riportare alla luce le forze nascoste che abbiamo ereditato dalla comunità d’Israele, per poter vivere ancora. E perciò vi prego: non ci cancellate dall’eredità».
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