Cultura

Cesare Viel, l’io e il mondo sono in corrispondenza

Cesare Viel, l’io e il mondo sono in corrispondenzaCesare Viel, «Lost in meditation» (part),1999-2019, foto di Lorenzo Palmieri

MOSTRE In «Operazione Bufera» l’artista si sdoppiò nella kamikaze cecena uccisa durante l’irruzione dei corpi speciali russi che pose fine all’assedio del teatro Dubrovka di Mosca

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 31 ottobre 2019

Performance, scrittura e voce, disegno, audio e video, fotografia, scultura e installazione compongono l’infinita gamma di supporti di cui si avvale Cesare Viel (Chivasso, 1964) per reificare l’opera, veicolare il suo pensiero e sintetizzare trent’anni di lavoro. Tutto questo è in scena al Pac di Milano nella sua bellissima antologica (fino al 1 dicembre), curata da Diego Sileo.
Già il titolo, Più nessuno da nessuna parte, citazione riadattata da Roland Barthes nel Journal de deuil, intende condurre lo spettatore in una dislocazione spazio-temporale e in uno stato di assenza-presenza che le numerose opere in mostra sfiorano nei loro concetti germinali. Ed è anche una sorta di incipit che testimonia quanto il sapere nelle sue disseminazioni collimi con gli eventi intimi e sociali vissuti dall’artista.

LOST IN MEDITATION (1999-2019) è l’opera che potentemente dà l’accesso. Un alto covone di fieno a forma di parallelepipedo, con una scala appoggiata su un lato, è posto al centro della sala dipinta di azzurro, mentre echeggia in sottofondo la voce di Ella Fitzgerald nel brano omonimo. È non solo il riporto della performance in cui l’artista si sdraiava sulla balla fantasticando uno spensierato spaesamento infantile, ma una epifania scultorea e sinestetica con i suoi odori, le sue imperfezioni naturali e la sua maestosità scenica quasi felliniana. La performance è l’attitudine viscerale che connota la ricerca dell’artista. «L’identità e la soggettività – afferma Viel – che mi interessa sviluppare attraverso le mie performance e installazioni sono profondamente relazionali, situate in un qui e ora, il risultato di uno scambio continuo. Naturalmente, sono anche aperte, incerte, sempre in movimento. Sono attratto dall’aspetto della presenza, il peso dei corpi reali nello spazio, in un luogo fisico preciso. Voci, corpi, gesti in situazione e in relazione fisica tra loro». Nel site-specific Il giardino di mio padre. Gli oggetti sotterrati (2019), nel parterre dove è allocato un lungo giardino, l’artista disotterrava oggetti appartenuti al padre per poi seppellirli, affidandoli alla terra e conservandone il pathos, nel silenzio molecolare dell’atto di rimozione (del non detto e, quindi, sotterrato) che diventa riapertura e rielaborazione. In altre sale, sono ripercorse due azioni: Infinita ricomposizione (2005) e Aladino è stato catturato (2000).

L’IDENTITÀ E LA SOGGETTIVITÀ, fin dagli novanta, sono inscenati e coniugati in lavori rizomatici che individuano la complessità del genere (il video Androginia del 1994, soprattutto), il patriarcato, l’inconscio, il corpo e il desiderio. Poiché ogni opera di Viel non è un semplice oggetto artistico ma pensiero critico in divenire, composto da strati di significazione infiniti che si avvitano tra loro. I suoi fascinosi sdoppiamenti performatici: Dino Campana (Sogno Campana, 2005), Virginia Woolf (To the Lighthouse, Cesare Viel as Virginia Wolf, 2004), Ingeborg Bachmann, (Progetto Bachmann, 2006), Emily Dickinson (Accendere una lampada, 2003) attestano una continua interrogazione del Sé attraverso una sorta di dialettica triangolare, di volta in volta differenziata, che accomuna l’artista con il doppio incarnato e gli eventi sociali o intimistici su cui ragionare, posizionarsi, intervenire.
In Operazione Bufera (2003), per esempio Viel si sdoppia nella kamikaze cecena uccisa durante l’irruzione dei corpi speciali russi che pose fine all’assedio del teatro Dubrovka di Mosca.
L’uso del testo sia scritto ma soprattutto calligrafico è saliente nel suo lavoro ed è la dimensione dell’esserci, della presenza activa dell’artista nella corrispondenza tra l’io e il mondo, afferrabile in opere come Noi gestiamo il disordine quotidiano del pensiero (1990), Forma di vita (1990) e Fra teatro e autografia (1991), poiché come Viel racconta, «ho iniziato a scrivere a mano nel 1990 su fogli di carta, per esporli come opere. Era un modo per misurarsi con la soggettività e con un desiderio di verità. Volevo ridurre al minimo la distanza fra il processo mentale e la sua messa in opera, fra l’agenda personale e il luogo espositivo».
Il flusso del testo e il suo ascolto compone l’installazione Gertrude. The Making of Americans (2012) in cui, l’audio diffonde la voce di Viel nella lettura del libro di Stein che è poggiato su una delle tre pietre collocate sul pavimento: un intenso spiazzamento concettuale.

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