César Díaz, le sfide del Guatemala
Intervista Il regista racconta il suo paese di origine, in occasione della presentazione a Locarno del suo secondo lungometraggio
Intervista Il regista racconta il suo paese di origine, in occasione della presentazione a Locarno del suo secondo lungometraggio
Nato in Guatemala, cresciuto in Messico e da oltre vent’anni residente a Bruxelles il regista César Díaz, dopo l’esordio con Nuestras Madres (sulla tematica dei desaparecidos guatemaltechi, Camera d’or a Cannes) conferisce al proprio Mexico 86, presentato al Festival di Locarno, una valenza che va oltre il profilo storico di un film in buona misura autobiografico, nel quale la protagonista Maria (personaggio ritagliato sulla sua vera madre, militante rivoluzionaria della guerriglia guatemalteca) è costretta a rifugiarsi in Messico dove continua a cospirare e ad essere perseguitata; dibattendosi nell’impossibile dilemma di poter riprendere con sé il figlio, abbandonato in patria quando era ancora in fasce.
«Maria vuole costruire un mondo migliore anche e soprattutto per il suo piccolo Marco al costo di rischiare la vita. Eravamo sotto una dittatura oligarchico/militare. Ti torturavano, ti violavano. Era un diritto difendere sé stessi e le proprie idee; fino all’unica e obbligata opzione rimasta: imbracciare le armi.
Questo film l’ho sentito come un esercizio necessario per restituire la memoria di coloro che in America latina erano disposti a morire per cambiare la società».
Non che Díaz auspichi oggi possibili ritorni alla lotta armata, salvo citare i palestinesi «invasi nel proprio territorio»: «In Europa per instaurare la democrazia ci sono volute due guerre mondiali di fila. Ma oggi il nemico è cambiato e non esiste più un’ideologia che lo possa sconfiggere. I tiranni di una volta, con i loro apparati repressivi, sono pressoché scomparsi. Mi viene in mente Mitterand quando al suo tramonto affermò come l’epoca in cui l’azione politica aveva una ricaduta immediata sulla vita dei cittadini fosse finita. Oggi, con la globalizzazione, tutto è più complesso e ci vuole più tempo. Gli stessi oligarchi del mio paese vivono oggi a Miami e vanno sì e no a lavorare un paio di giorni alla settimana in Guatemala. La mia è un’opera di provocazione perché le nuove generazioni continuino a riflettere sul ruolo di ciascuno di noi e sulle modalità per la difesa (o la conquista) dello stato di diritto. Qui, nella sempre meno benestante Europa, come nel subcontinente latinoamericano, risuscitando termini come attivismo e militanza, senza i quali trasformazioni profonde per il bene comune risultano impossibili; a partire dall’urgenza del cambio climatico i cui effetti sono ormai a tutti palesi».
Chiediamo a César come vede il Guatemala di oggi dove nel gennaio scorso si è insediato il primo governo progressista dai tempi della Rivoluzione Popolare del 1944, rovesciata dieci anni più tardi da un golpe della Cia per aver azzardato una riforma agraria che avrebbe messo in discussione il business della bananiera United Fruit Company. «L’inaspettata affermazione di Bernardo Arevalo figlio di Juan José che fu presidente durante quella rivoluzione, è stato l’unico risultato elettorale positivo dello scorso anno in America Latina. Il suo intento è quello di dare un futuro democratico a questo paese. Quando nel ’96 furono firmati gli accordi di pace ci si limitò all’esercizio libero del voto ogni quattro anni senza che fossero neppure abbordati problemi sociali di fondo come la povertà, la redistribuzione della ricchezza, l’introduzione di imposte all’oligarchia. Il solo votare non è democrazia. Come è accaduto del resto in gran parte del subcontinente latinoamericano».
Del film, girato sia in Guatemala che in Messico, sollecitiamo Díaz sulla peculiarità indigena del suo paese d’origine per il quale una commissione delle Nazioni Unite certificò il genocidio per mano dell’esercito (con oltre 190mila vittime): «La metà della popolazione guatemalteca è maya; parla un’altra lingua, ha un’altra cultura e cosmovisione. E quegli accordi di pacificazione avevano sancito anche la promozione di uno «stato multiculturale». Niente di tutto questo si è concretizzato. E adesso l’outsider Arevalo si è imposto nella sorpresa generale proprio perché i giovani e i movimenti organizzati autoctoni lo hanno votato, dopo che la candidatura di una leader indigena era stata esautorata dal Tribunale Elettorale. Ma i deputati «originari» sono solo quattro in parlamento, dove peraltro il presidente non ha neppure la maggioranza».
César Díaz non nasconde l’enorme sfida che il nuovo governo si trova davanti: «L’elezione di Arevalo può essere considerata una sorta di continuità delle lotte degli anni ’70 e ’80; ha risvegliato grandi speranze in Guatemala. E la sua priorità non può che essere la ripulitura del sistema giudiziario, attualmente al totale servizio dei corrotti settori facoltosi. Ma la sfida ancora più grande è quella di rispondere in tempi brevi alle urgenti aspettative di salute, riduzione del costo della vita, occupazione e contenimento della criminalità della popolazione. E il poco tempo a disposizione non gioca certo a suo favore. Mentre qualche neopopulista potrebbe nel frattempo riaffacciarsi all’orizzonte».
All’osservazione di come si possa spiegare il paradossale appoggio dell’amministrazione Biden al nuovo governo di sinistra in Guatemala il nostro interlocutore risponde: «Non è solo per combattere il narcotraffico, che le destre favorivano; la più grande preoccupazione degli Usa è arginare l’emigrazione dei 490 guatemaltechi che ogni giorno attraversano la frontiera del Rio Bravo».
Tornando al suo film César Díaz si mostra stupefatto che il Festival di Locarno, pur già tradizionalmente aperto e plurale e che aveva recentemente invitato il grande regista Ken Loach, lo abbia selezionato nonostante il suo marcato e radicale taglio politico: «tanto più in una stracolma Piazza Grande che poco prima aveva consegnato il Pardo alla carriera alla superstar di Bollywood, Shah Rukh Khan: quasi una sorta di surreale schizofrenia». La sua prossima opera, ci anticipa, sarà sulla tematica dell’emigrazione verso l’Europa.
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