Due scoperte sorprendenti sono emerse in questi anni dallo studio dei cervelli. La prima è che capacità mentali complesse possono essere osservate in organismi dotati di cervelli minuscoli. Animali come le api, che posseggono meno di un milione di neuroni (i neuroni sono le principali cellule di cui sono costituiti i cervelli), apprendono concetti astratti come quello di uguale/diverso più velocemente di quanto non faccia una scimmia. Possono anche imparare a distinguere un volto da un altro oppure a riconoscere lo stile pittorico di Monet rispetto a quello di Picasso. Non solo: sanno discriminare il numero in una collezione di stimoli e cogliere la nozione di zero come insieme vuoto.

L’ORGANIZZAZIONE di questi cervelli in miniatura pure stupisce: l’asimmetria tra la parte destra e sinistra del sistema nervoso, che abbiamo tradizionalmente considerato come la quintessenza della sofisticatezza cognitiva, legata nella nostra specie alla funzione del linguaggio, può essere osservata negli insetti o nel verme Caenorhabditis elegans che possiede trecentodue neuroni in tutto. Come ho notato nel mio libro Pensieri della mosca con la testa storta (Adelphi, 2021) non si tratta di chiedersi come faccia un’ape a riconoscere un volto o un quadro di Monet, quanto piuttosto che cosa ce ne facciamo noi di tutti questi neuroni che ci avanzano.

La seconda scoperta è che la grandissima parte delle nostre funzioni mentali sembra potersi svolgere compiutamente senza che ne siamo consapevoli. La mente, come quel famoso coniuge, è l’ultima a sapere. La scoperta di questo inconscio cognitivo è per certi aspetti più dirompente della scoperta dell’inconscio freudiano. Ad esempio, vi sono persone che a causa di una lesione circoscritta a una porzione della corteccia mostrano un comportamento guidato dagli stimoli visivi del tutto normale pur negando al contempo di vedere alcunché (una condizione nota come «vista cieca»).

O, ancora, persone che sottoposte a test in condizioni sperimentali atte a prevenire la percezione conscia di uno stimolo costituito da una semplice espressione algebrica rivelano di aver condotto su quello stimolo le operazioni dell’aritmetica, senza esserne stati consapevoli.

L’implicazione di questi risultati è ovvia: il possesso di capacità mentali anche raffinate non è una prova del fatto che una particolare creatura sia cosciente, cioè che senta qualcosa, che provi qualcosa. Una buona fetta della retorica animalista è nutrita proprio da questo genere di argomenti fallaci: se quell’animale sa risolvere problemi complessi (ad esempio, se sa fare addizioni e sottrazioni) allora è ovvio che debba essere cosciente. Bene, non è così. Sappiamo che le persone possono svolgere compiti semplici come afferrare un oggetto così come altri più complessi quali riconoscere un volto o trarre un’inferenza (se A>B e B>C allora A>C) in assenza di consapevolezza. Che un altro animale si riveli capace di eseguire gli stessi compiti non prova perciò che sia cosciente.

PARIMENTI INSOSTENIBILI mi paiono gli argomenti che legano la comparsa della coscienza a un qualche genere di aumento della complessità del sistema nervoso. Perché mai la complessità dovrebbe generale l’esperienza cosciente? Nella famosa vignetta di Gary Larson che fa bella mostra di sé in quasi tutti gli uffici dei matematici del mondo si vede uno studioso impegnato in una lunga ed estenuante dimostrazione quando a un tratto sulla lavagna fa capolino tra le formule un passaggio bizzarro: «E qui avviene un miracolo…». Io credo che dovremmo astenerci dall’invocare il miracolo dell’apparizione della coscienza dalla complessità.

Le teorie dominanti sulla coscienza si concentrano sulle complessità della corteccia cerebrale, discutendo magari se siano più rilevanti le zone anteriori, parieto-frontali, o quelle posteriori, sensoriali. Ma prendiamo la più basilare tra le nostre esperienze, così importante tra l’altro sul piano etico: sentire dolore. C’è chi ha argomentato che tra i vertebrati i pesci non sentano dolore perché privi di corteccia. Ora, a prescindere dal problema se l’anatomia del pallio (la parte più dorsale e anteriore dell’encefalo) di questi animali consenta loro elaborazioni di tipo corticale, il fatto è che molti dati suggeriscono che la corteccia non sia essenziale all’esperienza del dolore, ma che lo siano invece strutture antiche (più semplici?) come il tronco dell’encefalo.

D’ALTRO CANTO il criterio che noi usiamo comunemente per l’attribuzione di processi coscienti ai nostri simili prescinde dal possesso di intelligenza e complessità. Ci sono persone che soffrono di gravissimi deficit cerebrali che causano loro menomazioni cognitive tali per cui esse non saprebbero risolvere la metà dei test che vengono somministrati quotidianamente nel mio laboratorio a creature come i pulcini, i pesci zebra o le api. Nondimeno riteniamo di doverle trattare in un certo modo non solo perché appartengono alla nostra specie ma perché riteniamo, a torto o a ragione, che sentano qualcosa, per esempio che provino dolore, e tanto ci basta.

Il mio personale punto di vista sull’origine e l’evoluzione biologica della coscienza è perciò assai diverso da quello oggi dominante tra i miei colleghi. Affonda le sue radici in una proprietà basilare di alcuni organismi: quella del movimento attivo, che può esser fatta risalire forse a seicento milioni di anni fa.