L’Italia sul finire dell’Ottocento, è un paese unito ma sul territorio, nelle campagne, tra le montagne, lungo i fiumi, in mezzo ai pascoli, tutto è ancora com’era, tutto è ancora selvaggio, complicato, in un certo qual modo incantato. La Maremma toscana è l’Ovest italiano, è una frontiera che ricorda da vicino il fascino, gli spazi e la spietatezza del selvaggio West, il territorio statunitense foriero di lotte, guerre, combattimenti tra americani e indiani. Laggiù bisonti, quaggiù vacche. Laggiù cavalli, quaggiù pure, eppure, proprio nel cavallo, nel tipo di cavallo, nella diversa postura, andatura, resistenza, sta la prima differenza, una di quelle che sta alla base delle vicende raccontate in Selvaggio Ovest (NN editore, pp. 368, euro 18) dallo scrittore toscano Daniele Pasquini.

SI TRATTA DI UN ROMANZO molto bello di ispirazione nordamericana, nato e destinato ai grandi spazi, un romanzo che profuma di biada, grano, carbone, sterco e di temporale, di Maremma e di riserva indiana, di lotta per la vita e di lotta tra uomini. Un romanzo, inevitabilmente, d’amore. Pasquini racconta le vite dei mandriani e delle loro famiglie, del loro badare al bestiame, dell’ammazzarsi di fatica dall’alba a sera e a volte fino a notte. Dei lavori delle donne, del guardarsi dai briganti, dal mutare delle stagioni, dalla malaria che da quelle parti colpisce e quasi mai dà scampo.

In un passaggio leggiamo: «Chiunque in quelle terre maledette arrivasse all’età adulta poteva considerarsi un superstite». Terre maledette, difficili, dello sforzo e dell’assenza di chi parte col bestiame, di chi non torna, di chi muore. I personaggi di Pasquini sono Penna, il migliore dei butteri, suo figlio Donato che impara in fretta, Occhionero il re dei briganti, un fuorilegge spietato ma dedito a uno strano codice d’onore, la giovane Gilda figlia di un carbonaio che sfugge alla malasorte, allo stupro e medita vendetta, Leda la saggia moglie di Penna, la più intuitiva, la più capace, la più dolce e risoluta, Orsolini, un carabiniere caduto nella disgrazia creata da sé stesso, e poi Buffalo Bill – sì, proprio lui, in Italia con il suo circo -, Alce nero e gli altri suoi indiani e cowboys.
Questi personaggi, insieme a figure minori, come un frate mezzo matto, un dottore, un carbonaio disperato al punto di vendersi sua figlia, altri briganti, mettono in scena uno spettacolo di frontiera, pieno di ritmo e d’avventura, ma anche di sogni, di illusioni e delusioni. Selvaggio Ovest è una storia avventurosa, è l’America portata in Italia, ed è molto romantico.

OGNUNO DEI PROTAGONISTI si sta sempre giocando tutto, ma quasi mai si fanno drammii: il furto, la sparatoria, la fuga, la morte, stanno nell’ordine naturale delle cose. Accadono, semplicemente. Nella Maremma di Pasquini gli uomini sanno che è giusto rischiare la vita per un cavallo, le donne sanno che la vita può essere salvata da una zuppa calda, o da un toro liberato al momento opportuno.
«La vera differenza la fa quel che si racconta», scrive Ned Buntline in una lettera a Buffalo Bill posta all’inizio del libro, e pare una dichiarazione d’intenti di Pasquini che con una prosa incalzante, dal buon ritmo, alternando le voci e i vari piani del racconto, costruisce un racconto fatto di polvere e lingua in cui insistono cose realmente accadute ma trasfigurate dall’autore e cose inventate che sembrano vere.  C’è la Maremma ma ci sono gli echi di Larry McMurty, di Cormac McCarthy, nuvole di polvere che mischiano il fiato dei butteri a quello degli indiani.