Ceronetti e la violenza cieca dei testi antichi
Novecento italiano Non si comprendono questi «racconti» ulceranti disgustosi di Guido Ceronetti (usciti nel ’93) senza le traduzioni da Vecchio Testamento e classici latini: Einaudi ripubblica D.D. Deliri disarmati
Novecento italiano Non si comprendono questi «racconti» ulceranti disgustosi di Guido Ceronetti (usciti nel ’93) senza le traduzioni da Vecchio Testamento e classici latini: Einaudi ripubblica D.D. Deliri disarmati
Nel dicembre del ’69 Guido Ceronetti a Sergio Quinzio che gliene aveva chiesto notizia riferisce l’ennesimo ritardo nella pubblicazione dell’Ecclesiaste: della traduzione dei Salmi erano restate nei magazzini 2000 copie e dunque Einaudi non aveva fretta di uscire con un altro titolo biblico. Con una perfetta anfibologia, la chiosa è: «Il Sacro non si vende». È bene tornare all’Ecclesiaste (o Qohelet) e alla frequentazione dell’autore con Quinzio, teologo ed esegeta di testi biblici, prima di entrare in D.D. Deliri disarmati (1993), ora ripubblicato da Einaudi («Letture», pp. XXXIII-225, € 19,50), con una prefazione di Tiziano Scarpa intitolata «Camminando su un selciato di nuvole». Ma è anche bene tenere a mente le concretezze contabili di una casa editrice: la passione del filologo, il suo senso di responsabilità nei confronti di un testo che se non tradotto di fatto morirebbe, scende a incarnarsi tra le cifre di un bilancio aziendale che devono pur quadrare.
L’autore, è noto, ha avuto una lunga consuetudine con i testi veterotestamentari e con la poesia classica, consuetudine avviata nel 1955 e mai interrotta: Marziale, Orazio, Catullo, Giovenale e i Salmi, il Qohelet, il libro del profeta Isaia, il libro di Giobbe, il Cantico dei Cantici. La profondità e la potenza di tali linguaggi lo hanno introdotto nell’ambito del sacro e quell’ambito è diventato quello suo d’elezione, quel linguaggio è diventato il suo linguaggio. Tradurre i testi antichi significa farli fluire dentro di sé, farli respirare di nuovo, e solo la mano e il corpo del traduttore compiono l’opera alchemica che consente al testo di riprendere vita, mentre quel corpo resta irreparabilmente contaminato e non c’è linguaggio profano che possa dare refrigerio a chi ha sperimentato da vicino la potenza del sacro.
Come i leoni alati introducevano alla presenza dei re assiri, munirsi dell’Ecclesiaste e degli altri testi tradotti o composti da Ceronetti consente di affrontare con forza sufficiente Deliri disarmati, che altrimenti rischierebbero di rimanere del tutto muti.
Due sono i tratti che fanno da fondamento alla scrittura di Ceronetti: la visione profetica e, strettamente connessa, la distanza rispetto al proprio tempo, il delirio, l’uscita dal ‘solco’ tracciato dalla lama dell’aratro. Coinvolto nel delirio si ritrova anche il lettore, che dovrebbe dal titolo ricavare esplicito ammonimento. E infatti come tutti i testi di Ceronetti anche questo, come un onesto lebbroso che scuota il sonaglio per annunciare l’approssimarsi di sé e dei batteri che lo abitano, issa la bandiera nera di un titolo che mette in guardia il lettore incauto.
I racconti di Deliri disarmati presentano le fantasie di un disperato appassionato, un bogomilo catapultato nel Novecento e che, fattosi lettore e traduttore, ausculta i testi di autori diventati polvere da millenni per catturarne il battito e coglierne almeno un soffio di sopravvivenza. Come Tamo, che si sentì chiamare e fu incaricato di annunciare che il grande Pan era morto (e il passo plutarchiano del Tramonto degli oracoli è qui espressamente richiamato), Ceronetti sa che la sua opera ha a che fare con la morte e obbedisce a una vocazione, quella di consentire la sopravvivenza alle voci degli estinti salvandole dall’oblio cui la superficialità e l’indifferenza li hanno condannati.
Tra le pagine di questi ‘deliri’ si danno convegno figure del mito greco e divinità dall’aura appannata: un Apollo dimenticato su una foglia di lattuga, Edipo che suona alla porta, un dente di Austerlitz, la ghigliottina degli innocenti e così via, accoppiamenti pochissimo ortodossi che crivellano il lettore e ne scardinano senza rimedio le certezze (e non a caso uno dei titoli ceronettiani è proprio Cara incertezza). In molti di questi racconti – che poi racconti lo sono in un modo particolare, visto che tutto ciò che viene presentato resta nel perimetro di una sospensione inesplicabile – si danno manifestazioni incongrue, discrasie, che prendono la forma ben riconoscibile degli archetipi: la madre, la porta, l’uovo, varie specie di animali, tutti espressi in sembianti travestiti e degradati. Eppure per colui che sa vedere, per chi ha dimestichezza con i sogni e le visioni, questi elementi assumono il carattere di teofanie dissimulate. Ma si tratta di teofanie che di per sé non illuminano e che restano irriconoscibili a chi non è in grado di cogliere il significato di ciò che pure ha davanti agli occhi.
Rivelatore, in questo senso, l’ultimo racconto, L’uovo. Al protagonista Maripò viene consegnato un uovo da un uomo reso altissimo dai trampoli. L’uomo beve l’uovo e «si ricordò di essere stato un uovo», si concentra con tutte le sue forze e alla fine avviene il miracolo: il guscio del mondo si rompe e Maripò appare a se stesso in forma di uovo. L’impensabile riconoscimento lo porta a ripercorrere le apparizioni dell’uovo in Piero della Francesca e in Bosch. Che si tratti di una versione straniata dell’annunciazione è notazione che si fa strada a poco a poco nel lettore (l’uomo reso altissimo dai trampoli è l’arcangelo Gabriele? La madre di Maripò è la vergine?)
Anche in questo volume si affaccia uno dei numi tutelari di Ceronetti, quella luna violata dall’allunaggio alla quale l’autore aveva dedicato l’opera d’esordio nella narrativa, Difesa della luna e altri argomenti di miseria terrestre (1971). Il satellite terrestre ormai profanato e dis-aurato è sostituito da un miserabile surrogato, la lùnia. Dovunque si posi lo sguardo c’è il segno senza rimedio della corruzione: sulla terra «c’è una falla, una vergogna, c’è l’uomo», l’uomo bianco «quello a cui ho la vergogna di somigliare, che mi costringe a rinnegarlo, a trasformarmi in vaso di geranio, in bruco con gli occhiali», come scrive proprio ne La lùnia. In un articolo apparso sulla Stampa nel ’95 aveva lanciato l’anatema: «credere nell’uomo è veramente l’idolatria più maledetta, il peccato dei peccati, l’errore degli errori».
È fatale che chi si accosta alla scrittura di Ceronetti sia colto da un sentimento di repulsione nei confronti di ciò che l’autore va proponendo. Parole, immagini, odori, tutto è segnato dalla corruzione e genera disgusto, un disgusto che per osmosi istantanea trapassa al lettore. Orrore, nausea, raccapriccio sono i connotati dei racconti che riflettono con il linguaggio delirante della visione quel che l’autore prova per tutto ciò che vede e sente.
Nella sua prefazione Tiziano Scarpa non nasconde il proprio disagio di fronte agli aspetti più repulsivi di questa scrittura e fa appello all’intero corpus degli scritti ceronettiani quasi a schermarsi dalla violenza verbale di Deliri che evidentemente tanto disarmati non sono. E trova infine la chiave di lettura nell’ambivalenza: da un lato c’è il fondamento scritturale e sapienziale che lenisce le piaghe dell’esistenza, dall’altro la tirannia delle immagini verbali, che Scarpa definisce «l’incontenibile anarchia delle parole», nel potere delle quali Ceronetti si trova abbandonato.
Eppure i due termini dell’oscillazione possono essere intesi come complementari, perché è dalla tirannia delle parole che germina l’ustione, la violenza cieca dei testi antichi. Il traduttore del libro di Giobbe e dell’Ecclesiaste non ha mai potuto né voluto dimenticare quanto ulcerante sia il contatto con la parola sacra e con il Linguaggio: a partire da quel contatto, il contagio è irreversibile, ed è piaga, fetore, disgusto di sé, lacerazione. E la letteratura ne è la porta d’ingresso.
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