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Cercasi boia, mano ferma sangue freddo

Cercasi boia, mano ferma sangue freddoRe Salman dell'Arabia saudita (a destra) – REUTERS/Jim Bourg

Arabia saudita Ai candidati che risponderanno all'annuncio pubblicato dal ministero della pubblica amministrazione non è richiesta alcuna qualifica, devono semplicemente dimostrare di saperci fare con la sciabola. Impennata delle esecuzioni capitali nel regno dei Saud. Quest'anno già 85.

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 20 maggio 2015

Non è richiesta una qualifica agli otto boia che cerca il ministero della pubblica amministrazione dell’Arabia saudita. E nemmeno titoli di studio. Vanno bene anche gli analfabeti. I candidati devono semplicemente avere la mano ferma, sangue freddo e dimostrare di saperci fare con la sciabola. Non sappiamo quanti sauditi risponderanno a questo “annuncio di lavoro” apparso in rete che, peraltro, non prevede un salario alto. Certo è che il numero delle condanne a morte eseguite è drammaticamente aumentato nel regno di re Salman alleato di ferro dell’Occidente: già 85 quest’anno contro le 88 del 2014. Ma lo staff, a quanto pare, è insufficiente. Anche perché si estende il tipo reati puniti con la morte: omicidio, stupro, apostasia, traffico di droga o di armi, adulterio. L’amputazione di una o di entrambe le mani inoltre è una pena di routine per il furto.

 

In Arabia saudita la maggior parte delle condanne a morte avvengono mediante decapitazione. I più “fortunati” possono . Quest’sperare nella fucilazione. Tutto si svolge in pubblico e, nonostante il divieto di ripresa, gli spettatori non di rado postano in internet filmati raccapriccianti. Nel mese di gennaio fece il giro della rete il video di una donna birmana, Layla bint Abdul Mutaleb Bassim, che urlava la sua innocenza prima di essere decapitata in una strada pubblica della Mecca. Incurante di quelle grida, il boia la costrinse a sdraiarsi per terra, in prossimità di un passaggio pedonale, quindi le recise la testa con una spada ricurva. In seguito la Saudi Press Agency comunicò che la donna era stata condannata a morte per aver ucciso sei anni prima una bimba di sette anni, la figlia di suo marito.

 

A nulla è valsa la recente denuncia di Amnesty International sul vertiginoso aumento delle sentenze di morte eseguite in Arabia saudita, che l’anno scorso si è piazzata al terzo posto in questa macabra classifica. Circa la metà dei condannati da parte dei tribunali del regno wahabita è saudita mentre il resto proviene da Pakistan, Siria, Giordania, India, Yemen, Birmania, Ciad, Eritrea, Filippine, Indonesia e Sudan. Il ministero degli interni sostiene che la pena di morte è un deterrente importante ma non fornisce alcun riscontro statistico a questa affermazione. Anzi, il numero in salita delle condanne a morte indirettamente dice il contrario. L’aumento è coinciso con l’ascesa al potere di Salmam, a conferma indiretta che il nuovo re intende usare il pugno di ferro non solo in politica estera ma anche all’interno per dare un segnale forte a dissidenti e oppositori. Human Rights Watch riferisce che almeno 38 delle esecuzioni eseguite nel 2015 sono avvenute per reati di droga ma da più parti si sostiene che l’aumento delle decapitazioni è legato a “ragioni di sicurezza”. Contribuiscono anche i giudici di ruolo, più numerosi che in passato, che stanno portando a conclusione molti processi rimasti fermi per lungo tempo. L’Iran, dati alla mano, esegue annualmente più condanne a morte dell’Arabia saudita. Ma mentre Tehran è costantemente criticata, condannata, tenuta in isolamento da Europa e Stati Uniti, invece Riyadh gode di impunità, grazie al suo ruolo “moderato” in Medio Oriente e nella regione del Golfo. Anche se nelle capitali occidentali conoscono bene il peso che l’Arabia saudita e altre petromonarchie stanno avendo nella crescita del radicalismo sunnita e del jihadismo, specie nella Siria devastata dalla guerra civile.

 

In Arabia saudita non se la passano meglio i condannati al carcere. Uno dei casi più noti è quello del blogger Raif Badawi. Il 17 giugno 2012 è stato arrestato per aver criticato esponenti religiosi e successivamente accusato di apostasia. Nel 2013 è stato condannato a sette anni di carcere e 600 frustate ma nel 2014 la Corte d’appello di Gedda ha inasprito la condanna a 10 anni di prigione, 1000 frustate e una multa di 1.000.000 di rial (circa 200mila euro). Lo scorso 9 gennaio Badawi è stato frustato in pubblico dopo la preghiera del venerdì di fronte alla moschea di al-Jafali a Gedda. Dopo la fustigazione è stato portato all’ospedale in gravi condizioni. Solo grazie alla (tardiva) indignazione internazionale non è stato più frustato ma resta a rischio e comunque sconterà la condanna a 10 anni.

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