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Cercando il «reale» attraverso la finzione

Cercando il «reale» attraverso     la finzione

Distonie Moretti, Garrone, Sorrentino, una comune sensibilità mimetica più che creativa, una messa in scena contenuta entro i limiti di una prossimità quasi metonimica con l'oggetto reale.

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 30 maggio 2015

In un comunicato congiunto il terzetto dei papabili della Croisette, Moretti, Sorrentino e Garrone, si augura di poter essere di stimolo «per tanti altri registi italiani che cercano strade meno ovvie e convenzionali». Sul mistero rappresentato dall’esistenza di queste «strade» e sul perché alcune possano essere considerate «ovvie e convenzionali» e altre no, tenteremo di gettare quantomeno una fioca luce. La strada in questione è quella che conduce dal mondo reale al film, e su di essa corre la relazione dialettica tra realtà e cinema. Secondo una suggestione deluziana, un po’ logora, se vogliamo, il cinema nasce dall’interazione tra il «cinematografico» inteso come categoria generale e astratta delle potenzialità del linguaggio, e il «filmico», cioè il livello dell’attualizzazione del «cinematografico» in un testo specifico, enunciazione concreta e percettibile che chiamiamo, appunto, «film», un processo in cui varranno a definire di volta in volta il grado di complessità del cinema e del mondo messo in rappresentazione: è la differenza che passa tra un cinepattone vanziniano e un film di Pasolini, per capirci. Jackobson (e Bressane dopo di lui) parlava di traduzione intersemiotica, «l’interpretazione dei segni linguistici (un testo verbale, un romanzo, una sceneggiatura, ndr) per mezzo di sistemi di segni non linguistici», come quello filmico, pluricodicale ed eterogeneo per natura (immagini, suoni ecc.).

paolo sorrentino

Una traduzione che, a seconda dei casi, potrà essere quanto più possibile vicina al testo originale, o di tipo creativo, suscettibile, cioè, di allontanarsi dall’originale sino al limite estremo dell’interpretazione soggettiva. Poiesis contro mimesis, l’elemento di comunanza che ricerchiamo tra Moretti, Sorrentino e Garrone sta tutto nell’equilibrio alchemico tra l’istanza produttiva, (ri)creatrice del cinema e la sua capacità imitativa di riproposizione del reale. Moretti, estimatore del cinema italiano anni sessanta, cerca una messa in scena che crei una forte impressione di realtà. Per questa ragione abiura le alterazioni della sfera percettiva che eccedano le possibilità ordinarie del corpo umano (grandangoli, effetti sonori fortemente impattanti, angolazioni e inclinazioni accentuate ecc) perfino nelle numerose scene oniriche di Mia Madre, che permetterebbero soluzioni stilistiche più marcate (sfocati o luci particolari, effetti sonori da sogno, ecc). Non cerca quella quasi coincidenza del reale col cinema che si aveva nella pasoliniana «lingua scritta della realtà», l’espediente realista servirà, semmai, a mascherare una istanza enunciativa forte, a nascondere il discorso, la presa di posizione, che Moretti sente di dover fare sul mondo. Il reale non si autorivela nell’immagine cinematografica per metonimia ontologica, come in Pasolini, ma osservato da un punto di vista esterno (e personale) «nascosto» dietro una impressione di realtà. Il fastidioso rumore di traffico che copre parzialmente i discorsi di

Gerardo e Nanni nella seconda scena di Isole, per fare un esempio chiarificatore prendendolo da Caro Diario, è solo apparentemente realistico, perché da quella distanza non dovrebbe sentirsi nulla, in realtà è uno dei modi che Moretti usa per esprimere la propria opinione (negativa, manco a dirlo) sul tema della comunicazione tra individui nel contesto metropolitano contemporaneo, che lui ritiene, evidentemente, impossibile. L’orizzonte poietico morettiano è comunque moderato, non aspira a una risemantizzazione totale, ejzenštejniana, del reale ma a una sua problematizzazione, a una riconfigurazione del suo senso che sia solo parzialmente soggettiva e la «forma della sua messa in forma» segue a ruota, navigando «a vista» rispetto al referente.

nanni-moretti

Da un certo punto di vista, quindi, Moretti si colloca agli antipodi rispetto a quel pomo della discordia critica che è Sorrentino, oggetto di una polemica che riguarda proprio il carattere fortemente formalista, e quindi distanziato dal suo referente reale, della sua messa in rappresentazione. Si discuterà altrove della effettiva necessità espressiva o emozionale di cotanto virtuosismo stilistico, qui interessano solo i legami di tipo eidetico, di relazione forma-contenuto, che lo interrelazionano con il dato extrafilmico, la sua traduzione itersemiotica.
Sorrentino si prende varie licenze poetiche, libertà di accrescimento o diminuzione del dato percettivo, che ritiene funzionali all’emersione di reconditi aspetti del reale che mette in scena. L’ipervisività barocchesca di La Grande Bellezza, che «accresce il reale», con i suoi movimenti di macchina ipertrofici, i cromatismi e l’illuminazione oleografico-cartolinesca, l’acrobatismo registico, insomma, sarebbe da considerare come strategia testuale di rappresentazione del vuoto, del nulla (irrealizzato progetto flaubertiano continuamente citato nel film) atrraverso un’estenuazione moltiplicatoria del suo antinomico, il tutto pieno straripante.

Al contrario, dicunt, l’estetica sottrattiva che informa Le Conseguenze Dell’Amore, la preminenza cromatica del bianco e dei non-colori, la ritrosia alla verbalizzaione diegetica, ecc. sono da intendersi come epifenomeni di una ricostruzione dell’interiorità solipsistica e reclusa di Titta De Girolamo-Servillo. Operazioni di manipolazione estetica del reale, dunque, necessarie all’emersione di quei tratti psicologici, grotteschi, parossistici o parodici di personaggi e situazioni che altrimenti resterebbero taciuti. La relazione di questo cinema con il reale non è mai di tipo metaforico, simbolico o metalinguistico, semmai sarà di tipo maieutico, disvelativo, tesa a rivelare il rimosso di questo reale, il grottesco e il tragico in essa già presenti ma in forma latente o dissimulata. Non una realtà nuova, ricreata dal cinema, quanto una realtà rivelata nelle sue pieghe e aumentata o diminuita sotto il profilo percettivo in ragione di un progetto che è re-interpretativo ma non demiurgico e che dunque riassorbe gli spunti pur parossistici e iperbolici, come il tremendo party capitanato da Jep Gambardella, in un orizzonte di verità drammaticamente reale.

Per Garrone possiamo fare un discorso analogo: la sua spiccata vocazione pittorica, che in Tales Of Tales trova un’apoteosi dalla forza cristallina, gli permette un certo grado di distanziamento referenziale, ma il suo orizzonte veritativo, l’oggetto primo delle sue disamine, resta la realtà oggettiva. L’incipit di Reality, in cui fa attraversare il traffico cittadino da una sontuosa carrozza dorata con tiro di cavalli bianchi, è costruito in maniera simile al party di Jep Gambardella, parte da questa immagine fiabesca e ci fa pensare di trovarci di fronte a qualcosa di surreale e poetico di cui subito dopo svela la natura prosastica e concreta. Il sobrio cocchio serviva a traghettare due sposini alla festa di nozze organizzata dalla famiglia protagonista del film, icona sacrata della napolitaneità più picaresca, che ci viene restituita, seppure attraverso i registri del parodico e del parossistico, con un senso di prossimità al vero di esattezza addirittura antropologica. Gomorra è chiaramente un’opera finzionale ma l’impressione finale che lascia è quella di aver osservato, come in un documentario, un pezzo di (tragica) realtà. Per tornare al discorso iniziale più che di ovvietà e convenzionalità delle strade percorse da Moretti, Sorrentino e Garrone parlerei di una sensibilità comune più mimetica che poietica e di una messa in scena contenuta entro i limiti di una prossimità quasi metonimica con l’oggetto reale.

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