Cercando Godard, coordinate di un isolamento rigoroso e vitale
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Cercando Godard, coordinate di un isolamento rigoroso e vitale

Artista dell'elusione Jean-Luc Godard a Rolle, sul Lago di Ginevra: uno splendido (o terribile) isolamento?

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 17 settembre 2022

C’è una sequenza particolare in Visages, Villages di Agnés Varda e JR; ed è il momento in cui i due autori si recano a Rolle, in Svizzera, nella casa di Jean-Luc Godard. Varda vorrebbe entrare, incontrare il suo vecchio amico che non vede da tempo, ma la porta rimane chiusa. Solo una scritta alla finestra ricorda un luogo dove i due, insieme a Jacques Demi, marito di Varda, andavano spesso a mangiare. La porta diventa barriera, quasi a marcare uno spazio oltre il quale la visibilità è negata. Un confine che impedisce un incontro. A pochi giorni dall’annuncio della morte di Godard quella sequenza, dura e radicale, ritorna alla mente, caricata di ulteriori significati. 

Quello spazio serrato sembra alludere ad un volontario isolamento, ad una esplicita e violenta rinuncia ad entrare in rapporto con l’altro, con il suo passato, con il mondo. Uno splendido (o terribile) isolamento?

La solitudine sembra essere la dimensione entro la quale Godard decide di vivere l’ultima parte della sua vita. Ma non è una solitudine subita, patita come perdita di centralità nell’orizzonte del cinema mondiale. Si tratta in realtà di un gesto estremo, estetico e politico insieme: quello di farsi testimone, nel tempo presente, delle tante temporalità che il cinema ha prodotto, evocato, vissuto nel corso della sua storia. Ripercorrendo la sua filmografia, salta agli occhi come Godard abbia gradualmente e con sempre maggiore decisione virato verso un’idea di cinema che è fatto della sua memoria, della sua traccia. Dal progetto unico di Histoire(s) du cinéma, oggetto fuori scala che continuerà poi a rifrangersi in decine di altri titoli successivi, il gesto godardiano consiste nel diventare egli stesso il corpo del cinema, che è fatto delle sue immagini, dei suoi personaggi, dei suoi sguardi. I film non sono fatti di citazioni, ma assorbono, incarnano in loro stessi le tracce che il cinema non smette di lanciare nel mondo. Isolarsi quindi per diventare archivio mobile, segno vivente del cinema, quasi come l’angelo della storia di Klee ricordato da Benjamin, che, pur sospinto in avanti dal vento del progresso, volge lo sguardo alle rovine del passato. Ed ecco allora sfilare nella nostra mente i film che sono composti da inquadrature e sequenze, ma anche di quadri, musiche, scritture (perché per parlare del cinema, c’è bisogno di mettere in gioco tutte le arti). Sono storie in cui i personaggi parlano con frasi di altri: a proposito di Hélas pour moi, Godard ripeteva che le uniche parole originali nella sceneggiatura erano “buongiorno” e “buonasera”. Sono film dove ogni espressione, gesto e immagine rimanda direttamente e indirettamente ad altre visioni, ad altri mondi. Film fatti di gesti che si appropriano con amore infinito, o con lacerante disperazione, del passato. 

Ecco che allora la solitudine diventa necessaria e vitale. Necessaria, perché solo assumendo fino in fondo la propria inattualità Godard può porsi come autore di questo gesto che rianima e reincarna il cinema, le sue rovine, rilanciandole ostinatamente nel presente. Vitale, perché questo gesto non è certo il segno di una resa, o di un ripiegamento nella nostalgia di un cinema che non c’è più. Tutt’altro. “L’immagine verrà, oh! tempo”: è la frase in sovrimpressione che apre l’ultimo straordinario film, Le livre d’image, in cui tutta la prima parte è attraversata da immagini di mani che indicano, che lavorano ad una moviola, che scrivono, che si alzano scheletriche al cielo. «Ci sono le cinque dita, che tutte insieme formano la mano, e la vera condizione dell’uomo è quella di pensare con le mani», dice la voce fuori campo di Godard nel film. 

Forse nessun altro incipit è così esplicito nel dichiarare l’operazione godardiana, la sua solitudine necessaria. Pensare con le mani, scrivere un libro di immagini: è ciò che permette al cinema di scoprire ogni volta, sia pur dolorosamente, la sua potenza, la sua contemporaneità. In fondo, il cinema è nostro contemporaneo proprio quando non è legato esclusivamente al tempo in cui è stato realizzato. Il montaggio di Godard è una scrittura quindi, originale e potente, che si fa di fronte alla moviola (quante volte Godard è apparso nei suoi film di fronte ad un tavolo di montaggio o con una macchina da scrivere?).

Pensare con le mani è dunque l’operazione dello scrittore solitario, il gesto necessario di colui che scrive con la materia stessa del cinema. E lo fa perché, appunto, l’immagine verrà, ma non è dato sapere quando. E le mani devono continuare a scrivere e a pensare.

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