Lavoro

C’era una volta il Jobs Act: l’unica crescita è la disoccupazione giovanile

C’era una volta il Jobs Act: l’unica crescita è la disoccupazione giovanileFoto – La Presse

Jobs Act Per l’Istat è al 39,4%, +1,6% dal novembre 2015. Aumentano gli squilibri: sono gli over 50 a lavorare di più, mentre gli under 49 sono più precari e disoccupati. È una delle eredità della riforma di Renzi. Nel frattempo in Italia cresce una nuova condizione: la ricerca di un lavoro è diventata un lavoro

Pubblicato quasi 8 anni faEdizione del 10 gennaio 2017

Mai così alta la disoccupazione giovanile dal novembre 2015. Nella rilevazione Istat di novembre (2016) è tornata al 39,4%, +1,8% rispetto a ottobre. A novembre è cresciuto anche il tasso di disoccupazione generale all’11,9%, +0,2% su base mensile: un aumento di 165 mila in un anno per un totale di oltre 3 milioni. Si conferma il dato strutturale del mercato del lavoro: lavorano di più, e precariamente, gli over 50, trattenuti al lavoro dalla riforma Fornero. E lavorano di meno, e precariamente, gli under 49. La fascia anagrafica più colpita è quella tra i 35-49 anni: in un anno, 160 mila persone hanno perso il lavoro. Seguono i 25-34enni con meno 88 mila, poi gli under 24 con meno 5 mila. Gli occupati tra i 50 e i 64 anni sono 453 mila in più. Il tasso di occupazione tra questi ultimi è aumentato del 2,1% (58,8%), mentre quello tra gli under 24 è calato dello 0,5%. I nuovi occupati sono donne (+32mila), mentre gli uomini calano di 13mila unità.

SU BASE ANNUA è possibile inoltre capire i settori dove cresce di più l’occupazione. La crescita tendenziale è attribuibile quasi esclusivamente ai lavoratori dipendenti (135 mila dei 193 mila). È una conseguenza dell’assetto tradizionale del mercato del lavoro precarizzato, fortemente incentivato dagli sgravi contributivi pubblici destinati dal governo Renzi alle imprese che assumevano lavoratori stabilmente precari. Va inoltre ricordato che questo dato non è definitivo: finiti gli sgravi (almeno 11 miliardi pubblici per tre anni), le imprese potranno licenziare i neo-assunti. La tendenza è acquisita. Dall’inizio del 2016, quando i bonus renziani sono stati tagliati da 8.040 a 3.250 euro per neo-assunto, si registra il crollo delle assunzioni «a tempo indeterminato».

I DUE ANNI DEL JOBS ACT non hanno scalfito il primato negativo italiano del tasso di occupazione più basso d’Europa: 57,3%. Non solo la «riforma» non ha creato nuovo lavoro, ma ha spostato quello esistente verso la fascia più matura dei lavoratori, rafforzando un’antica legge italiana: chi ha un lavoro, anche precario, lo mantiene, in condizioni peggiori. Chi non lo ha mai avuto, o lavora a intermittenza, resta prigioniero della «trappola della precarietà»: un contratto precario non lo porterà verso un lavoro più stabile, ma verso una precarietà peggiore. Questa è una strada senza uscita: la regola delle vite di molti giovani, e non solo giovani.

OLTRE AL DUALISMO generazionale del mercato del lavoro, dall’analisi dei dati mensili emerge un’altra costante: aumentano i disoccupati (a novembre +57 mila rispetto al mese precedente), calano gli occupati e gli «inattivi» tra i 15 e i 64 anni (-0,7%). Tra chi è occupato precariamente (il 75% dei neo-assunti è a termine in Italia) e chi cerca un lavoro (e non lo trova) tra i 15 e i 64 anni il calo è stato pari a 93 mila unità e il relativo tasso è tornato ai minimi storici (34,8%) dall’inizio delle serie storiche dell’Istat.

IL CALO non dovrebbe generare troppi entusiasmi. L’aumento della disoccupazione si spiega così: i 57mila disoccupati in più registrati a novembre sono ex inattivi che hanno cercato un lavoro, ma non lo hanno trovato, nel mese precedente alla rilevazione. La maggior parte dei 93 mila ex inattivi a ottobre 2016 possono essere diventati disoccupati a novembre (57 mila). Non è detto che a dicembre abbiano trovato un lavoro. Possono avere rinunciato a cercarlo, tornando così tra le schiere degli inattivi. Succede quando non esiste una domanda di lavoro in una congiuntura di crescita (minima) senza occupazione fissa. La chiamano Jobsless recovery.

IN QUESTA CORNICE si comprendono meglio le finalità dell’agenda sull’occupazione: il Jobs Act è un altro modo per riprodurre il precariato tra persone che non hanno lavoro, continuano a non trovarlo e restano nel limbo della precarietà. Più «attive» sono, più si dimenano in un precariato senza uscite. Questa esperienza è stata «tradotta» dal ministro del lavoro Giuliano Poletti con queste parole: «In un anno – ha detto – c’è stata una forte riduzione degli inattivi (469mila in meno) a fronte di un più alto livello di occupati (201mila in più, 135mila dei quali permanenti) e di un maggior numero di persone che cercano lavoro (165mila disoccupati in più)».

ESSERE SODDISFATTI per una maggiore disoccupazione è meno bizzarro di quanto possa sembrare. Si presuppone infatti che il disoccupato garantisca una «maggiore partecipazione al mercato del lavoro», mentre l’inattivo si sottrae a questo mercato. Stiamo assistendo a una trasformazione del significato otto-novecentesco di «disoccupato». Non è più il «senza lavoro», ma colui che ricerca un lavoro. Questa ricerca è diventata un lavoro, è il segno di un’attivazione permanente della vita del lavoratore (e del non-lavoratore) a caccia di lavori precari, con poco reddito e senza tutele.

IL LAVORO DELLA RICERCA di un lavoro è considerato un fattore «positivo» perché fa rimbalzare le statistiche che misurano l’andamento del mercato del lavoro verso l’alto. Il rimbalzo è usato dai governanti come la prova della «bontà» delle loro ricette. Ma, alla prova dei numeri, produce conseguenze effimere: il tasso di occupazione resta invariato. Segno che non si produce nuovo lavoro, ma si moltiplica la stessa precarietà.

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