«Folli non siam né tristi/né bruti né birbanti,/ma siam degli anarchisti/pel bene militanti…» recita una strofa del «Canto dei malfattori», scritto nel 1892 dal muratore e scultore anarchico Attilio Panizza. Il canto scorre nel risvolto della copertina di Ceppo e mannaia (ed. Interno4, pp. 213, euro 14) di Gianfranco Miro Gori, detto Miro in ricordo dello zio partigiano della 29° brigata Gap.

Il libro si concentra sulla vita di 13 anarchici di Romagna, il che comporta incrociare i maggiori esponenti dell’anarchismo internazionale, viaggiare tra le frontiere d’Europa, andare e tornare da Stati Uniti e Messico, la Grecia, l’Egitto, incontrare Mazzini, Garibaldi, Pisacane, Malatesta, Sacco e Vanzetti, Kropotkin, Engels, Marx, Lenin, Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli…

Alcune pagine sono fitte di avvenimenti, resoconti di attentati e imprese militari, altre ripropongono il dibattito interno al movimento anarchico tra i sostenitori della «politica del fatto» e i «legalitari». Spesso il racconto assume i ritmi incalzanti di un romanzo, un susseguirsi di arresti, bombe, processi, domicili coatti, fughe, evasioni, riunioni, giornali, dal Risorgimento alla Comune di Parigi, fino alla guerra di Spagna e alla Resistenza al nazifascismo.

Il primo capitolo è per Felice Orsini, classe 1819, un precursore dell’anarchismo. Fu tra i principali collaboratori di Mazzini. Nel 1849 è con Garibaldi e Pisacane a difendere la Repubblica, ma dopo il tradimento dei francesi e la caduta di Roma ripara a Nizza con la moglie Assunta.

Dopo varie peripezie e fallite rivolte viene arrestato nel 1859 e rinchiuso nel carcere di Mantova, dal quale evade segando le sbarre della cella e calandosi con delle lenzuola arrotolate. Tre anni più tardi a Parigi lancerà una micidiale bomba al fulminato di mercurio, da lui progettata, contro Napoleone III. L’imperatore miracolosamente se la cava, ma sono 156 le vittime dell’esplosione. Condannato alla ghigliottina rifiuta di chiedere la grazia e prima di offrire la testa al boia grida: «Viva l’Italia! Viva la Francia!».

Con Pietro Cesare Ceccarelli, ex garibaldino, si ripercorrono i tentativi insurrezionali della Banda del Matese, che metteva in pratica la «propaganda del fatto» teorizzata da Errico Malatesta e Carlo Cafiero.
Nel 1882 è in Egitto con Malatesta per appoggiare la rivolta guidata da Ahamad ‘Orabi Urabi, soffocata nel sangue dalle truppe inglesi. Morì al Cairo nel 1886.

Amilcare Cipriani, nato nel 1844, fu battezzato con una manciata di polvere da sparo dal padre fiero patriota e anticlericale. Morì nel 1918 a Parigi e fu sepolto nel cimitero di Père Lachaise. Una foto lo ritrae vecchio e malandato che cammina sul lungo Senna, dove i vigili che lo conoscevano e rispettavano in lui il glorioso eroe della Comune, fermavano il traffico per farlo passare. Giunto al banchetto dei venditori di uccelli comprava un fringuello o un passerotto, apriva la gabbia e gli ridava la libertà. La sua vita è una battaglia continua, imprigionato, torturato, confinato nella colonia penale in Nuova Caledonia, accolto da Garibaldi con un «ti aspettavo». A Roma un primo maggio in piazza Santa Croce in Gerusalemme, dove è tra gli oratori, un ragazzo tra la folla abbatte il poliziotto che pistola in pugno stava per sparargli. A Parigi il 9 novembre 1880, è tra quanti accolgono il ritorno in patria dal confino in Nuova Caledonia di Louise Michel, eroe della Comune. La polizia carica, uno sbirro si avventa contro Louise Michel, Cipriani lo stende. Nel 1901 fa pubblicità al vino Mariani alla coca, un litro di Bordeaux e foglie di coca, campagna cui parteciparono illustri intellettuali, musicisti, attori e il papa Leone XIII. Nel 1913 è candidato alle elezioni nelle file del partito socialista,viene eletto ma non può entrare in Parlamento, si rifiuta di prestare giuramento.
Se la vita di Amilcare Cipriani ha dell’incredibile, non meno appassionanti sono quelle di Luigia Minguzzi, detta Gigia, e Francesco Pezzi, e del triangolo amoroso con Errico Malatesta; del giornalista, editore e poeta Domenico Francolini; del «biundén» Andrea Costa, la lapide sulla sua tomba fu scritta da Giovanni Pascoli; di Armando Borghi, nel 1920 a Pietroburgo con Lenin; di Mario Buda e Carlo Valdinoci, bombaroli negli Stati Uniti; di Pio Turroni, muratore, editore, amico di Machno; di Silvio Corbari e la sua banda, imprendibile partigiano, incubo dei nazifascisti che era solito non solo combattere ma irridere e umiliare con imprese al limite dell’incoscienza.