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Centrodestra, i giorni del destino

Centrodestra, i giorni del destinoLa sfilata dei dirigenti del Pdl ad Arcore

Pdl Dietro lo scontro ad Arcore tra falchi e colombe c'è il futuro del partito. Ritorno a Forza Italia del '94 o alla Dc del '48? La scelta di Berlusconi se arrendersi o lottare contro la decadenza segnerà l'esito

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 14 settembre 2013

«Se vinciamo noi – spiegava qualche giorno fa a un collega un alto dirigente del Pdl che tuba con le colombe – ci sarà un vero partito di area Ppe, il cui candidato premier ideale sarebbe proprio Enrico Letta. Se invece vincono gli altri, daranno vita a una Forza Italia 2.0: un partito dell’8-10% al massimo». La partita politica che si sta giocando intorno al capezzale politico del «caro leader» è tutta qui.

A decidere chi la spunterà sarà la decisione che il gran capo non riesce a prendere. Da un lato la resa, l’accettazione della sentenza, l’affidamento ai servizi sociali, una campagna elettorale permanente ma soft, giocata sfruttando da par suo le opportunità offerte dalla pena (e non sono poche, basta a immaginarsi Silvio che sfama a sue spese i bimbi in difficoltà). Dall’altro la guerra, la crisi di governo, la chiamata alle armi del popolo forzista in nome della liberazione dal giogo togato, e prima o poi le elezioni in un clima da guerra santa.

Dalla strada che il sovrano in catene sceglierà di imboccare dipenderanno non solo la sua sorte e quella del governo Letta (faccenda trascurabile) ma anche il futuro di quella destra italiana che, in una forma o nell’altra, è maggioritaria in Italia da un secolo e passa (faccenda per nulla trascurabile).
In un partito normale la sfida si combatterebbe a colpi di dibattiti e mozioni, oppure mettendo in campo l’appeal personale del singolo aspirante leader, comunque cercando uno straccio di consenso nella base e nel funzionariato. Ma quello di Silvio Berlusconi non è un partito normale. È una proprietà privata, una corte nella quale vince chi trova maggior ascolto alle orecchie del Re e Padrone.
Non è una novità. I partiti-corte,nell’ultimo ventennio, si sono moltiplicati anche a sinistra. Solo che in questo caso l’anomalia è doppia. Capita infatti che lo scettro sia nelle mani di un tipo che, pur essendo stato per due decenni leader politico, tre volte premier e perno di un intero sistema, con la politica non ha nulla a che spartire. La capisce poco. Gli piace niente. Agisce su altre lunghezze d’onda: il marketing e l’interesse privato.
In soldoni: il condannato di Arcore deve fare una scelta dettata da calcoli e umori di carattere sostanzialmente apolitico, dalla quale deriveranno conseguenze strettamente politiche non solo sul piano effimero della tenuta di un governo ma anche su quello strategico della ridefinizione del centrodestra.

Non che lo scontro tra le due anime di Forza Italia sia una faccenda nuova. C’è sempre stato, anche se tra la stazza dei vessillifferi di vent’anni fa e quella degli epigoni passa la stessa differenza che c’è tra Lucio Colletti e Danielona. Da un lato i sostenitori di un partito plebiscitario e leggero, animato da velleità rivoluzionarie, dall’altro i militanti del continuismo, in marcia verso l’orizzonte antico di un partito neodemocristiano, dispostissimi a giocarsi la partita sullo scacchiere obliquo delle manovre parlamentari.
Tra le due anime, il dominus ha sempre evitato di scegliere. Le ha usate a seconda delle circostanze, premendo ora l’uno ora l’altro pedale a seconda del vantaggio momentaneo, senza mai far pendere davvero la bilancia dall’una o dall’altra parte. Arrivati all’ultima mano, non c’è dubbio su dove batta il cuore del capo: fosse per lui starebbe con i durissimi. I neo-dc proprio non li può più vedere. Ma se a un lato del capezzale si svolge il congresso-zuffa, dall’altro c’è il cda delle sue aziende, e, per ben diversi motivi , tira nella stessa direzione dei morbidosi.

Forti di questo prezioso assist, i neodemocristiani tentano l’unica manovra che può riuscirgli. Gareggiano con i falchi quanto a dichiarazioni ruggenti: valga per tutti lo Schifani che ieri ha accusato senza mezzi termini il Pd di «lavorare per le elezioni» col suo comportamento in giunta. In privato però consigliano di rinviare e rinviare ancora attaccandosi a ogni appiglio, ultimo il miraggio di un voto segreto a sorpresa dell’aula, chance in realtà vanificata proprio ieri dal M5S dopo che il sospetto era stato esplicitati da più parti.
Perdere tempo per fiaccare la combattività del capo è oggi la strada (molto, molto obliqua) per spingerlo a una scelta privata dalla quale deriverà la natura politica della destra italiana. Difficile immaginare un quadro più assurdo. Ma nemmeno più omogeneo a quella che è stata la grottesca parabola della seconda Repubblica.

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