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Centroamerica in piazza: via i governi corrotti

Centroamerica in piazza: via i governi corrottiProteste in Honduras – La Presse

Honduras Manifestazioni a Tegucigalpa e a Città del Guatemala

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 16 giugno 2015

Piazze in ebollizione anche in Centroamerica, ma da opposte sponde e per opposte ragioni. Honduras e Guatemala sono attraversati da ripetute manifestazioni contro la corruzione e il malgoverno. A Tegucigalpa, gli «indignados» sono scesi in piazza seguendo una modalità di autoconvocazione attraverso le reti sociali: senza bandiere di partiti, ma per esigere la fine dell’impunità per i corrotti che si annidano fin nelle più alte sfere di governo. La base dei partiti socialisti di opposizione – riunita nel Frente Nacional de Resistencia Popular (Fnrp) o nel Partido Libertad y Refundacion (Libre) – era però ben visibile in piazza: per denunciare «il narcostato» e la drammatica situazione in cui versano i ceti popolari. Oltre il 72% dei citttadini vive in povertà, il 53% in povertà estrema, mentre 10 famiglie controllano oltre il 90% dell’economia e il flusso di circa 2.050 imprese strategiche. Dall’Honduras passa oltre il 90% della cocaina proveniente dalla Colombia e diretta negli Stati uniti.

Cifre aumentate dopo il «golpe istituzionale» del 2009, compiuto contro l’allora presidente Manuel Zelaya, il quale, pur essendo un moderato, aveva «osato» volgere lo sguardo ai paesi dell’Alba. Col pretesto della lotta al narcotraffico è così ulteriormente aumentata la presenza militare Usa nelle tre basi militari presenti. Le sinistre honduregne hanno denunciato il recente rafforzamento di contingenti militari riscontrando un piano di aggressione contro il Nicaragua e il Venezuela. L’Honduras è infatti stato storicamente il territorio da cui contenere i processi di cambiamento della regione: a partire dal colpo di stato organizzato contro il governo progressista di Jacobo Arbenz in Guatemala, nel 1954. Nel 1965 le truppe nordamericane sono partite dall’Honduras per far cadere il governo di Juan Bosch nella Repubblica Dominicana. Stesse modalità vennero dispiegate contro il Frente Farabundo Marti in Salvador e contro la rivoluzione sandinista in Nicaragua,

L’Honduras è anche uno degli stati più violenti dell’America latina. A fare le spese dei 23 omicidi che si commettono ogni giorno sono spesso sindacalisti, contadini e giornalisti. La città di San Pedro Sula è considerata la più violenta del mondo per essere uno dei principali centri del narcotraffico. Come in Colombia e in Messico – denunciano le sinistre honduregne – i militari Usa sono i garanti del flusso del narcotraffico. La quantità di denaro che circola nel paese, gestita dai centri del capitale finanziario internazionale è gigantesca. La Banca mondiale prevede che il Prodotto interno lordo cresca quest’anno del 3,2%, ma 6 su 10 famiglie che vivono nelle zone rurali sono in stato di indigenza.

«Rinuncia Joh», gridano allora le piazze riferendosi al presidente Juan Orlando Hernandez. Il Commissario nazionale per i diritti umani, Roberto Herrera Caceres gli ha chiesto di aprire un dialogo con i manifestanti e di rispettare i diritti umani. Il presidente ha detto di «essere pronto al dialogo» con i diversi settori della protesta per mettere fine alla crisi politica.

Anche le piazze guatemalteche esigono le dimissioni del presidente Otto Pérez Molina, un ex generale dei tempi della dittatura soprannominato Mano dura. Anche in questo caso sono scesi in campo gli «indignados»: con un accento ancora più «apartitico» che in Honduras, dato lo stato di debolezza delle sinistre guatemalteche e la persistente chiusura di spazi per l’opposizione. Anche in questo caso, le numerose fiaccolate che si svolgono in diverse parti del paese chiedono la fine della corruzione, che ha coinvolto i più alti vertici di governo e le cerchie più vicine a Molina. Ma lui, dopo aver fatto cadere qualche testa, ha dichiarato di non avere alcuna intenzione di dimettersi e ha gridato al complotto. La Corte suprema ha dato il via libera a un’indagine parlamentare nei suoi confronti, ma gli Stati uniti stanno brigando affinché mantenga l’immunità parlamentare.

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