Horizon, cento città europee a emissioni zero
Il fatto della settimana Servizi essenziali vicini e ruolo dei quartieri. L’ambizioso progetto della Commissione Europea, da realizzare entro il 2030
Il fatto della settimana Servizi essenziali vicini e ruolo dei quartieri. L’ambizioso progetto della Commissione Europea, da realizzare entro il 2030
Il progetto dell’Unione Europea per selezionare 100 città che potranno usufruire di un affiancamento al fine di raggiungere le zero emissioni entro il 2030 è stato presentato anche in Italia, con una conferenza online che qualche giorno fa ha visto confrontarsi numerosi ricercatori sui temi centrali dell’ambiziosa proposta. Primo fra tutti il presupposto, per la sua riuscita, del coinvolgimento attivo dei cittadini, come evidenziato anche dal titolo dell’operazione: 100 Climate Neutral Cities by 2030, by and for the citizens (100 città a neutralità climatica entro il 2030, da e per i cittadini).
La necessità di agire sugli agglomerati urbani per mitigare i cambiamenti climatici e i loro effetti è dettata dal fatto che essi producono il 72% delle emissioni globali, pur ricoprendo solo il 3% della superficie terrestre, come ricorda anche il report della Commissione Europea che presenta la mission e che stima come la densità di popolazione nelle città aumenterà ulteriormente nel prossimo futuro, prevedendo che nel 2050 ci vivrà circa l’85% delle persone.
«Nel progetto si fondono i principi delle tre grandi politiche europee del momento: la trasformazione digitale, il Green Deal e l’economia per le persone», spiega Francesco Luca Basile, rappresentante italiano del gruppo di esperti per i settori clima, energia e mobilità di Horizon Europe, il programma quadro dell’Ue per la ricerca e l’innovazione sotto il cui cappello verrà sviluppata la sperimentazione. «Horizon Europe prova a immaginare strumenti di decarbonizzazione che non siano solo socialmente accettati, ma che abbiano elementi di giustizia sociale molto forti», continua il ricercatore, per il quale «si assume che questa opzione può essere possibile solo in virtù di un profondo impegno in innovazione ecologica inclusiva e del coinvolgimento diretto dei cittadini attraverso nuovi modelli di governance. Inoltre è importante definire obiettivi nel lungo periodo e la mobilitazione di appositi strumenti imprenditoriali e finanziari».
L’urgenza di un cambio sistemico è insita nella definizione delle smart cities, che immaginano un passaggio radicale sotto molteplici aspetti.
Basile ricorda l’ispirazione al concetto di Doughnut economics, l’economia della ciambella, ipotizzata dall’economista inglese Kate Raworth per trovare un nuovo equilibrio tra i limiti delle risorse della terra e la soddisfazione dei bisogni vitali anche delle fasce di popolazione più svantaggiate e che prende il nome dalla forma del diagramma circolare che ne deriva. Secondo l’economista questa prospettiva nasce dalla necessità di ripensare un’economia in forma circolare anche in ambito cittadino, consentendo di chiudere i cicli e di rigenerare le risorse a partire dalla valorizzazione delle cosiddette infrastrutture verdi e blu, come gli orti condivisi, i boschi urbani e i corsi d’acqua, nel tentativo di trovare un compromesso tra sostenibilità sociale e ambientale.
È in quest’ottica che si inscrive anche l’idea della «città dei 15 minuti», che prevede la presenza dei servizi essenziali nell’immediata prossimità dei quartieri (raggiungibili cioè in un quarto d’ora) e che è un modo per ripensare la mobilità urbana in termini di efficienza e valorizzazione del tempo della vita quotidiana.
Come spiegato ancora dalle parole di Basile, «non si tratta semplicemente di avere i servizi vicini, ma di un cambio di prospettiva in una città che diventa multicentrica, che prevede la capacità di facilitare la connessione tra quartieri e di integrare elementi naturali, in modo da offrire un ambiente di elevata qualità ad una distanza percorribile a piedi, incoraggiando la mobilità attiva e la capacità dei cittadini di relazionarsi e autorganizzarsi nel vicinato».
Uno degli aspetti più innovativi previsto in questo tipo di trasformazione urbana è la formazione delle cosiddette comunità energetiche, in cui i cittadini si riuniscono in associazioni di produttori-consumatori (prosumer) di energie rinnovabili. Il percorso di ricezione da parte del Parlamento italiano della Direttiva Europea 2018/2001 sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili, ha finalmente dato il via libera alla possibilità dell’autoconsumo.
Eppure la democratizzazione del sistema energetico, come anche il passaggio a una città intesa come bene comune, in cui i cittadini si sentano davvero coinvolti in un cambiamento che ha un ritorno soprattutto a livello ecologico e sociale, non sono immediati, ma anzi incontrano numerose criticità che andranno affrontate. «Non ci interessa che questo progetto si fermi a livello accademico o di alcune élite: abbiamo bisogno che entri dentro al cuore delle città, rivalutando il protagonismo sociale e rendendo chiari a tutti i benefici di un tale coinvolgimento», fa notare Francesco Luca Basile, mettendo l’accento sulla complessità del processo che si intende innescare. «La costituzione di una governance partecipata dai cittadini non è possibile senza un’idea di città che cambia i propri paradigmi, il che significa anche, soprattutto in questo periodo, puntare sulla possibilità di creare un reddito dignitoso da elementi a basso impatto, rivalutando ad esempio gli aspetti culturali e sociali e il loro contributo all’economia delle città».
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