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«Cell Block 99», una prigione e le sue soglie sull’ignoto

«Cell Block 99», una prigione e le sue soglie sull’ignotoVince Vaughn e Don Johnson in «Cell Blok 99 - Nessuno può fermarmi» di Craig S. Zahler

Cinema Il secondo film di Craig Zahler, mai uscito in sala, è disponibile in dvd

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 22 novembre 2018

Altro film non distribuito nelle sale e uscito ora in dvd (ancora per Universal, a 12 euro circa), Brawl In Cell Block 99, secondo film di Craig Zahler, rappresenta un caso davvero clamoroso di quelle lacune endemiche della distribuzione italiana, ora anche in fatto di commercializzazione del prodotto. In effetti in quanto a vendibilità Zahler non è meno attraente di Tarantino, anche al di là dell’immediato sfolgorio e del crepitare tutto plasticoso della superficie, dell’involucro così feticisticamente fantoccesco dei loro film (o di alcuni loro film). E tanto più questo Nessuno può fermarmi (titolo italiano), che sembra essere il film più immediatamente fruibile dei tre girati finora da Zahler: il più veloce, quello meno concentrato sulla rappresentazione del tempo inteso astrattamente, filosoficamente, come accade invece sia in Bone Tomahawk che nell’ultimo Dragged Across Concrete, tra l’altro una delle cose migliori viste a Venezia quest’anno, frutto di un lavoro onnivoro del regista (e scrittore), autore anche della sceneggiatura e delle musiche.

EPPURE, nonostante la fagocitazione tipicamente postmoderna, cioè l’appropriazione e reinvenzione dei generi, l’impressione ultima che si ha da questa congerie di segni, è di un procedere classico, addirittura scabro: una laconica scansione di figure del tempo che si declinano nel vuoto degli spazi aperti, che sia il deserto di Bone o l’estenuante, monodico snodo di strade in Dragged.
Ma Brawl fa eccezione, e sembra piuttosto consistere in assenza di tempo, in una bolla acronica in cui però è disegnato un percorso preciso che il protagonista deve percorrere attraverso luoghi topici: è apoteosi dello spazio chiuso, della stanza, la cella, l’ala più recondita di una prigione di massima sicurezza, la numero 99 del titolo, in cui converge l’azione marziale, ieratica dell’ex pugile Bradley Thomas (un Vince Vaughn nato per questo ruolo), con scricchiolio d’ossa, di braccia spezzate; crani finiti in crack fragoroso, teste di plastica, prima trascinate sul pavimento come palloni sgonfi, poi schiacciate, fracassate, fatte scoppiare sotto i tacchi o staccate dai corpi a calci e destinate a rotolare nel più sozzo dei water. Il film è tutto in questa minuziosa evoluzione attraverso lo spazio, o forse sarebbe meglio considerarla una progressiva segregazione: dall’aria aperta, poi il mare notturno, fino ai corridoi, le scalinate e i vari livelli di una linda prigione di media sicurezza, nelle cui celle di mattoni simmetrici splende la latta della toeletta e si sente il profumo disinfetto della branda, Bradley in uniforme celeste, pantofole ai piedi.

E DA LÌ L’EX PUGILE è costretto a farsi largo, anzi a precipitare negli interstizi di questo habitat ctonio, sempre più putrido che è la ragione del film: e lo fa attraverso la ritualità tetragona di una lotta derivata dallo Steven Seagal più duro e puro – quello degli esordi, da Nico a Giustizia a tutti i costi – quel corpo granitico, serioso, che pure lascia intuire la propria percentuale di adipe intorno alle braccia e al tronco, e sembra voler spiegare lo sviluppo dei colpi, attraverso la flemma, la lentezza delle mosse, per farne godere appieno allo spettatore. Il che mostra un’attenzione di Zahler verso il cinema americano d’azione di quegli anni, se si pensa anche ai molti, espliciti riferimenti al ciclo di Arma letale presenti in Dragged Across Concrete, a partire da Mel Gibson che ne interpreta il poliziotto protagonista.
Il blocco 99, nucleo centripeto di Brawl, si trova alla fine di questa struttura a corridoi, anticamere, cunicoli che scandiscono il film: è incastrato all’interno di un carcere di massima sicurezza dalle sembianze gotiche, abitato dalle voci dei criminali più biechi, pederasti, pedofili, che si parlano raucamente attraverso uno spioncino e i muri di celle fatiscenti, in perenne penombra.

ZAHLER fa una vera e propria agrimensura di questo luogo fantastico, delimitato da una parte da un cancello chiuso sul resto della prigione, e dall’altra, in fondo al corridoio che si estende in archivolti, dalla stanza più remota del castello, da dove arriva un po’ di luce e della soul music. Qui è tutta questione di prossemica, di misurare, contemplare la densità bruciante, la luminosità, il fremere di questo luogo zahleriano chiamato cinema: ed è questione di articolare le distanze esatte, avventurose, tra i personaggi immersi nella rissa, gli oggetti, gli arredi, e i passaggi che permettono il transito da un ambiente a un altro.

ANZI si può dire che il blocco 99 è tale, e di tale intensità immaginifica, proprio in relazione a queste soglie (che sono sempre soglie sull’ignoto), e dove i fantocci si possono squassare le mascelle, spezzare le spine dorsali a gomitate e le gambe di plastica sonante. Eppure non c’è nulla di più nudamente umano e struggente e tragico del dialogo telefonico tra Bradley «tornato uomo», spossato, mentre cerca di trattenere le lacrime, e sua moglie incinta: personaggi posti crudamente di fronte al mai-più, all’addio, alla propria fine.

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