Visioni

Céline Sciamma: «Chi parla degli abusi di potere nel cinema è fuori, come me»

Céline Sciamma: «Chi parla degli abusi di potere nel cinema è fuori, come me»Céline Sciamma

Intervista Parla la regista francese, ospite di «Venezia a Napoli», il femminismo che si fa ricerca artistica. L’infanzia, la lotta di classe sul set, la tensione verso l’autonomia e il recente omaggio a Patrizia Cavalli

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 9 novembre 2023

«La relazione che ho con i miei film è attraverso le persone, l’impatto che i miei lavori hanno nelle loro vite: parlare a un pubblico giovane è ciò che mi rende più orgogliosa». Icona del cinema Lgbtqi, artista visionaria, rigorosa e radicale nel sovvertire le dinamiche dell’eteronormatività e infrangere le strutture del binarismo patriarcale anche nell’industria cinematografica, Céline Sciamma è una delle cineaste più amate dal giovane pubblico. Fin dagli esordi ci siamo innamorati della sua cifra poetica e politica nel costruire immaginari che spostano lo sguardo, ribaltando preconcetti, scavando nelle crepe nascoste dell’animo umano, in quel desiderio puro e primitivo dei bambini – spesso protagonisti dei suoi film – che tutto accende, represso, silenziato perché fuori norma. Ospite d’onore della rassegna Venezia a Napoli che le ha dedicato un’ampia retrospettiva – da Tomboy, Petite Maman, Portrait de la jeune fille en feu, fino all’omaggio a Patrizia Cavalli presentato all’ultimo Festival di Venezia – Sciamma ha incontrato un accorato pubblico di studenti e appassionati di cinema e discusso con loro senza risparmiarsi. L’abbiamo incontrata in questi giorni. È forte il segno che la sua presenza ha lasciato in città.

Infanzia e adolescenza sono al centro della tua scrittura, perché? Come lavori con i bambini?

Credo sia dovuto al fatto che sono ancora molto connessa a quel momento della vita. Ho deciso che la mia relazione con i bambini – non ho figli e non ne avrò – si sviluppa proprio attraverso queste collaborazioni artistiche, penso che siano i migliori personaggi per i film che voglio fare. Io guardo sempre qualcuno che sta guardando: lo sguardo dei bambini non è uno sguardo turistico, implica sopravvivenza. Un bambino osserva perché ha bisogno di capire: l’ambiente, il contesto, la famiglia, la sua vita. Quando vedi un bambino che guarda, ti connetti con qualcosa che ha molto a che vedere col cinema, con uno sguardo che pone delle domande. Il cinema è il gioco di creare illusioni, i bambini sono molto bravi in questo. Lavorare con loro significa non essere coinvolti in nessun meccanismo di star system, implica un’etica, un tipo di collaborazione che per me è l’ideale. Li dirigo molto: non voglio caricarli di troppa responsabilità, gli do un copione, indicazioni molto accurate riguardo il significato della scena, cosa stiamo cercando di fare insieme. Quando il linguaggio del film prende forma, non hanno più bisogno di tutte queste indicazioni, sono entrati nel groove del film, lo abitano con i loro corpi. Una delle cose più belle che accade quando lavori con i bambini è che prendono tutto con grande serietà. Per questo sono così seri nei miei film: si comportano anche con più impegno di quanto ne metterebbero in famiglia o a scuola. Questo è meraviglioso. Per esempio in Petite maman le bambine sono molto minimaliste, era quello che volevo mostrare, non volevo rinchiuderle nella performance mainstream dell’infanzia per il cinema. Ci vuole coraggio a non essere seduttivi, mostrando i muscoli della realtà.

I tuoi film sono abitati da donne con vite segrete che si ribellano alla norma per seguire i loro desideri. Cosa significa essere una regista femminista?

I segreti sono una forma di tensione drammatica che uso molto, li condivido con una platea, è un modo per costruire attenzione e parlare di trasformazione. Non sono segreti nascosti, piuttosto non detti. Non mi sento una pioniera, c’è una tradizione forte cui sento di appartenere, molte donne artiste, cineaste mi hanno preceduta. La loro storia è stata dimenticata, cancellata. I miei film sono femministi e anti patriarcali: cercano di non parlare il linguaggio del padrone. Quando scrivo un film non si tratta di trasformare la mia prospettiva in qualcosa di universale, mi pongo delle domande sul linguaggio del cinema, cerco di liberare la storia dal canone, costruire un linguaggio onesto, personale, politico che possa ispirare qualcun altro. Non si tratta solo del modo in cui usi la camera. Lo sguardo include strutture di potere: come viene gestito un set, quanto paghi il tuo driver, la sicurezza. Il set è un luogo di lavoro, ci sono tante persone coinvolte, non puoi mettere in discussione lo sguardo solo attraverso la macchina da presa, devi mettere in discussione tutto: le condizioni di lavoro, da dove prendi il danaro, dove mandi i tuoi film, chi li distribuisce. Riflettere su questi aspetti legati al capitalismo è una parte fondamentale, per me, del femminismo. I film di guerra con un sacco di soldi possono essere bellissimi ma si tratta di un genere preciso: noi facciamo finta che non lo sia. Nel momento in cui inizi a parlare di questioni come gli abusi di potere in questa industria, la lotta di classe, le condizioni di lavoro, le questioni salariali, sei fuori. Quindi io sono fuori.

Che ruolo ha la memoria nei tuoi film?

È la mia ossessione, ritorna anche nel mio ultimo lavoro. Penso che il cinema sia un medium meraviglioso per viaggiare nel tempo, creare connessioni tra strutture temporali diverse: questo è il potere dell’editing che è l’effettiva scrittura del film. Scrivere un film non è come scrivere un romanzo, si tratta di comporre, questo lo sosteneva Germaine Du Lac, cineasta e teorica dell’avanguardia francese degli anni venti: non siamo scrittori ma compositori, stiamo progettando armonie future. Quel volto, quel movimento, in quella stanza: tutte queste scelte insieme creano un’armonia, la melodia globale del film. Si tratta di mettere insieme differenti strutture di tempo su una linearità, proteggere i futuri che stai creando, crederci, nutrirli. Fare film è come viaggiare nel tempo attraverso le idee. Bisogna essere molto radicati nelle proprie idee, altrimenti si rischia di perderle nel processo, anche per il modo massivo in cui si lavora. Sei settimane, otto ore al giorno. Perché? Non posso riprendere due giorni a settimana e poi editare gli altri tre giorni? Posso farlo, se voglio. Questa è arte povera, questo è quello che voglio fare: trovare la mia autonomia. L’industria del cinema si basa sulle olimpiadi, fare film è come essere un atleta. Nessun’altra arte funziona così. Ogni festival è basato sulla competizione, entrare nel sistema da soldi, visibilità, se si gioca a quelle regole. Ma sono strutture che non creano nessun linguaggio.

Parliamo del tuo ultimo lavoro «This is how a child becomes a poet»: com’è nato?

Al Festival di Venezia ho incontrato Chiara Civiello, amica di Patrizia Cavalli. Mi ha detto che stavano per svuotare il suo appartamento, mi ha proposto di andare a riprenderlo. Quando mi sono trovata lì, ho sentito la responsabilità di creare una sorta di archivio, ho ripreso due o tre immagini per ogni stanza. Solo dopo ho considerato queste immagini in maniera differente, è stato un po’ come riprendere il mio cammino nel punto dove lo avevo lasciato. Ho iniziato a farmi domande rispetto a come fare film, a come avrei potuto lavorare in un modo più autonomo. Per la prima volta ho fatto tutto da me, anche l’editing che ho realizzato su un tablet. Un processo che mi ha dato alcune risposte per il futuro. Mi ha dato gioia e piacere, e il fatto che mi sia piaciuta questa solitudine è una buona notizia.

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