Celati, lingue e paesaggi in movimento
Narratori italiani 14 saggi di Gianni Celati sugli scrittori amati, da Hawthorne a Melville, da London a Joyce: Narrative in fuga, da Quodlibet, che gli dedica anche un (polifonico) nuovo numero di «Riga»
Narratori italiani 14 saggi di Gianni Celati sugli scrittori amati, da Hawthorne a Melville, da London a Joyce: Narrative in fuga, da Quodlibet, che gli dedica anche un (polifonico) nuovo numero di «Riga»
«I would prefer not to»: le parole memorabili pronunciate da Bartleby sono tra le più enigmatiche della letteratura mondiale. La frase dello scrivano di Melville vale come insegna di un’antivolontà, che segue rotte impreviste, elude i destini e le trame che potrebbero indirizzare la storia verso un esito o addirittura dotarla di un ‘messaggio’. Dimessa e insieme lapidaria, inspiegabile eppure forte del più chiaro dei significati – cioè l’assenza stessa di significato al di là del trascorrere naturale di un’esistenza che non si lascia imporre obiettivi e direzioni –, la frase di Bartleby è anche la formula ideale per accedere a uno degli scrittori italiani meno prevedibili, meno inquadrabili in un ruolo e in un destino univoci, tanto sul piano letterario quanto su quello esistenziale: Gianni Celati.
Proprio il saggio premesso alla traduzione celatiana del Bartleby (Feltrinelli 1991) apre ora la raccolta Narrative in fuga, a cura di Jean Talon (Quodlibet «Compagnia Extra», pp. 348, e 18,00). Il libro comprende quattordici scritti su autori americani, francesi e irlandesi: da Hawthorne a Melville, Twain, London; da Stendhal a Céline, Michaux, Perec; da Swift a O’Brien, Beckett e Joyce (il cui Ulysses è stato oggetto di un’altra traduzione o ri-creazione da parte di Celati). A legare tra loro i saggi, tutte introduzioni o postfazioni composte tra il 1979 e il 2013 e in gran parte riviste, è proprio il motivo della fuga evocato nel titolo: è in «fuga perpetua» Huckleberry Finn; nelle avventure del Buck londoniano i «moti di fuga con cui si risale l’oscura traccia dell’evoluzione» prevalgono sui «discorsi didascalici»; fuggono il Wakefield di Hawthorne e il Brooksmith di Henry James e sono sempre in fuga «i reduci céliniani, traumatizzati e deliranti». Del resto, proprio la «linea di fuga» è un’immagine e insieme un concetto interpretativo ricorrente con cui Celati definisce la prospettiva dei personaggi che si muovono nelle sue ‘narrative’, quelle che ha inventato e quelle che ha studiato o tradotto. Che cos’è questa linea di fuga, verso dove è orientata? È l’obiettivo di uno sguardo straniante e utopico, che punta il mondo da lontano come a volerne ricevere un’immagine derealizzata; uno sguardo che appartiene ai visionari, ai folli e agli strambi, indifferente se non proprio contrario alla coerenza e alla finalità delle azioni.
«I would prefer not to» – anzi: «Avrei preferenza di no» secondo la traduzione che ne dà lo stesso Celati – può diventare l’insegna ideale non solo di una ‘narrativa in fuga’ ma di una sorta di ‘funzione Celati’ che spinge a riattraversare la letteratura per cercare le ragioni dello spaesamento e della stupefazione, anziché quelle di un’imitazione assuefatta del reale. Quest’effetto di fuga non è solo conseguenza del carattere dei personaggi, ma anche e forse soprattutto del loro linguaggio, del loro stile, cui Celati dedica da scrittore-traduttore osservazioni tanto suggestive quanto puntuali. A interessarlo è soprattutto la nascita o piuttosto lo scatenarsi nell’America di fine Ottocento di una lingua letteraria nuova rispetto all’inglese britannico; scrive per esempio che se «Mark Twain è riuscito a raggiungere un pubblico così vasto e vario, è grazie a una lingua sciolta e splendidamente superficiale, come nessuno aveva mai scritto». In questo senso, l’espressione è uno strumento più efficace della trama per restituire il senso di libertà e di erranza che connota la narrativa secondo Celati. «L’esercizio della scrittura – osserva nel saggio su Bartleby lo scrivano – dipende da un andamento inerziale delle parole, che ci portano dove vogliono loro, mai dove vogliamo noi. Portano dove sono chiamate dalle voci, sempre molto lontano, fuori da qualsiasi territorio d’appartenenza».
È questa consapevolezza forse ad aver reso Gianni Celati uno degli scrittori più mobili della letteratura italiana contemporanea, che per giunta ha saputo rendere tale qualità un connotato stilistico e in generale un aspetto del suo mondo di scrittore, in costante movimento tra paesaggi e lingue. Se si vuol provare a leggere e capire Celati occorre proprio seguire quel movimento, senza affrontarlo con un atteggiamento critico per così dire stanziale, che tenda cioè a far accasare lo scrittore negli spazi ben delimitati delle categorie e dei canoni. Per quanto classico (tanto da meritarsi un «Meridiano»), Celati non potrà mai essere canonico nel senso più inerte del termine, né potrà essere mai facilmente localizzato. Bisogna rinunciare ad afferrarlo, ma lasciare che nei suoi guizzi ci offra su di sé diverse prospettive; nei suoi confronti, l’atto critico non deve disporsi come davanti a un paesaggio inquadrato nella sua cornice, ma come davanti a un collage. Perciò le prospettive non possono che essere multiple e le interpretazioni polifoniche, come sono quelle fornite dal n. 40 di «Riga», anche questo pubblicato da Quodlibet: Gianni Celati, a cura di Marco Belpoliti, Mario Sironi e Anna Stefi (pp. 518, e 28,00). Un numero del periodico dedicato a Celati era già uscito nel 2008; rispetto a quella versione, il nuovo volume guadagna circa duecento pagine e cede alcuni testi (inseriti nel frattempo in altre raccolte pubblicate o in uscita), acquistando in cambio scritti, saggi e recensioni degli ultimi anni. Preceduti dall’editoriale e dalle ‘dediche’ di Arminio, Cavazzoni e Benati, i testi di Celati, composti in un arco di tempo che va dagli anni settanta ai dieci del nuovo secolo, sono distribuiti in cinque sezioni (più una di interviste e conversazioni), seguite da un’antologia della critica che comincia con Calvino, Gramigna, Ghirri e arriva fino alle voci più recenti.
Di particolare interesse è il capitolo VI «Magazzini d’arte e di scarti», ampliato rispetto alla versione del 2008; vi sono inclusi i testi di Celati sullo spazio e sulla narrazione, oltre che su autori (Leopardi per esempio) e opere cruciali per la sua riflessione. È in questi scritti che si riconosce con più chiarezza il legame tra critica e narrazione che caratterizza la scrittura di Celati e che questo volume di «Riga» vuole mettere in luce. Racconti, progetti, scritti sul tradurre, viaggi: i diversi generi e funzioni della scrittura compongono un’immagine variegata ma coerente, che trova un pendant visivo nell’Album alla fine del volume. Qui è raccolta una quarantina di scatti celatiani, in anni e luoghi diversi, e spesso in pose o situazioni strambe e curiose; quel senso di spaesamento o disambientamento, illustrato dalle foto, è il punctum che dà senso all’insieme e rende spiegabile il trascorrere della scrittura di Celati dalle comiche ai paesaggi, dall’invenzione alla meditazione. Scrivere e viaggiare sono attività che hanno in fondo gli stessi moventi e che, per Celati, rispondono ai medesimi principi.
Se il Celati viaggiatore (in Andar verso la foce, 2008) è ispirato dall’«anonimato dei posti, il vuoto andando per le campagne, la totale mancanza di temi considerati “interessanti”», dall’assenza di ogni teoria, il Celati narratore (Il narrare come attività pratica, 1998) crede «che il narrare consista nel tenersi sul filo della temporalità: ossia nel sentire e far sentire come tutto cambia ogni momento, e come in ogni momento si debbano usare le parole in un modo diverso, con accezioni diverse; e nel sentire e far sentire che tutte le nostre frasi e gesti e toni dipendono dal variare dei momenti, nella fluidità dello scorrimento, nell’impossibilità di fissare un senso perpetuo e definitivo».
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