Nel febbraio del 1970, due mesi prima di togliersi la vita, Paul Celan contattò il ventottenne Moshe Kahn, poeta anche lui, oltre che direttore del Goethe-Institut di Firenze, e gli disse che sarebbe stato lui il suo traduttore ufficiale in italiano, giungendo a questa decisione dopo un tortuoso viavai di interlocuzioni, titubanze, dietrofront.

Da venticinque anni, Celan traduceva a sua volta con ritmo serrato, facendo la spola tra gli autori più importanti del canone occidentale: Shakespeare, Mandel’štam, Esenin, Blok, Valéry, Benn, Ungaretti, Char, Rimbaud, Apollinaire, Pessoa. Attentissimo al testo straniero, possedeva una sensibilità prensile e sismografica per la sua fisionomia, per il dato ritmico, timbrico, sintattico di ogni verso, una vigilanza irriducibile che desisteva da ogni scorciatoia e che, senza mai spezzare il legame con l’originale, risultava in creazione autonoma e risoluta. Ma negli ultimi anni, la deontologia poetica era diventata ossessione, soprattutto da quando Claire Goll, vedova del poeta alsaziano Yvan Goll, lo aveva accusato di plagio nei confronti del marito, trasformando il risentimento privato in uno degli affronti più vili del secondo Novecento, espresso due volte in pubblico, a distanza di sette anni e in gradazione ascendente: non solo Celan avrebbe copiato i versi di Yvan Goll, ma avrebbe persino inventato la storia strappalacrime secondo cui i genitori sarebbero morti in un lager ucraino.

Traumatizzato dalla diffamazione, Celan reagì a pelle viva, mentre la sua sensibilità si fece ancora più vibratile e amara, desiderosa di contatto e insieme ritrosa, spaventata da ogni avvicinamento. Su questa scia morirono in culla molti tentativi, condotti lungo gli anni Sessanta da Mondadori, di tradurre le sue poesie per la collana Lo Specchio, da ultimo quello di Zanzotto auspice Sereni, allora direttore editoriale: attentissimo nel valutare soluzioni e rese, esigente fino al parossismo, Celan cassava una alla volta le prove di traduzione, bocciava i nomi alternativi, resisteva a inviare un indice dei componimenti. La scelta di Moshe Kahn sembrò un approdo definitivo ma i lavori si interruppero con la morte di Celan e solo nel 1976 l’antologia Poesie, che campionava testi dalle varie raccolte, vide finalmente le stampe per Mondadori, collana Lo Specchio come da programma, nella traduzione di Kahn che collaborava con Marcella Bagnasco. La prima pietra conobbe un’enorme fortuna presso i lettori italiani aprendo le porte alla voce forse più abissale del Novecento. Più di quarant’anni dopo, Kahn – ormai traduttore collaudatissimo e pluripremiato cui si deve nel frattempo la versione tedesca di testi italiani tra i più impervi, da ultimo il colossale Horcynus Orca – riprende in mano la silloge del 1976 e la ripubblica in collaborazione con Vittorio Tamaro, forte di una profonda revisione e arricchita di materiale dalle tre raccolte postume, nel volume edito da L’orma, Paul Celan, Poesie (pp. 372, € 30,00), a corredo una memoria di Helena Janeczek che ricorda la presenza, totemica e miliare, del Celan di Kahn nei suoi primi anni italiani.

Il volume di poesie, che si muove di raccolta in raccolta secondo cronologia, restituisce con orecchio finissimo la lingua di Celan senza cascare nel suono alto, impreziosito, cui ricorrono a volte le soluzioni, autorevoli e ormai invalse, di Giuseppe Bevilacqua e procedendo invece, con rispecchiamento quasi interlineare, a riprodurre i molti composti inusuali, le coniazioni, le spezzature, gli inarcamenti dei versi. Con questo booster a distanza di quarant’anni, Moshe Kahn fa parlare i testi, che guadagnano tutta la scena mostrando, in perfetta corrispondenza, la lingua di Celan, dai respiri più ampi delle prime raccolte alla parola strozzata e contratta delle ultime. Una lingua che si fa sempre più scabra, paradossale, disintegrata, frangendosi in quell’«accelerato declino della sintassi» a rasentare il silenzio, per poi svoltare, vera come «una stretta di mano», in parola nuova e autentica.