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Cecilia Mangini e Fortini, un incontro

Cecilia Mangini e Fortini, un incontro

Film «All’armi siam fascisti» la storia rimossa del ventennio

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 30 gennaio 2021

Tra i lavori più importanti di Cecilia Mangini, recentemente scomparsa, va ricordato il film All’armi siam fascisti, realizzato nel 1961 con Lino Del Fra e Lino Miccichè su testi di Franco Fortini, e presentato nell’agosto di quell’anno alla Mostra del Cinema di Venezia ma, a causa della censura, uscito nelle sale solo nella primavera del 1962. Si trattò del primo film sul fascismo che, partendo dalla domanda del presente, «c’è ancora il fascismo?», si interroga, in un’ottica di lunga durata e dentro un quadro mondiale, sui caratteri di classe del fascismo e del nazismo come risposta armata della borghesia alla rivoluzione d’ottobre e alle conquiste del movimento operaio in Europa. Una lettura che si deve all’autore del testo, che fa da contrappunto brechtiano alle immagini, il poeta e saggista Franco Fortini, del quale riportiamo una pagina tratta da un volume delle Edizioni Avanti! del 1963 (purtroppo a tutt’oggi non ancora ristampato) che conteneva, oltre a quello di All’armi siam fascisti, altri due testi per film, Scioperi a Torino, sulle lotte degli operai della Lancia e della Michelin, e La statua di Stalin, sulle origini, la natura e le trasformazioni dello stalinismo.

«Di All’armi il testo è stato scritto dieci mesi dopo i fatti del luglio 1960 [le cariche a cavallo contro i manifestanti che portavano una corona d’alloro da deporre sulla lapide di Porta S. Paolo a Roma che ricordava i caduti nella resistenza ai nazisti]… All’armi aveva una tesi ben precisa: che all’origine del fascismo siano stati soprattutto gli interessi del capitalismo agrario e industriale e che la soppressione delle libertà liberali, le avventure coloniali e finalmente la catastrofe militare non siano state causa di pravità d’animo o sete di potere dei fascisti o scarsa lungimiranza dei capi, ma siano state invece il corollario di una serie di scelte compiute dalla borghesia italiana, alta, media e piccola, spesso in contraddizione fra loro e non senza l’appoggio di larghi strati del salariato, ma tutte volte a combattere con la massima energia gli interessi di classe del salariato stesso nel suo complesso, ed insomma le prospettive socialiste… Essendo e sapendo di essere, sull’argomento, il primo film di aperta e violenta tesi antifascista, non poteva non esprimere anche i dodici anni di svilimento, contestazione e distruzione dell’eredità antifascista e resistenziale voluti dall’Italia americana, governativa ed ufficiale».

Il film è quasi tutto costruito, attraverso un sapiente montaggio, su filmati d’archivio di produzione fascista e nazista ed altri di produzione delle organizzazioni del movimento operaio. Alcune immagini si vedono in Italia per la prima volta: i ribelli libici impiccati durante l’aggressione coloniale italiana del 1911 e lo strazio delle madri di fronte ai corpi uccisi dai franchisti e dai loro alleati italiani e tedeschi durante la guerra civile spagnola. Ma per i registi non fu facile agli inizi degli anni Sessanta procurarsi quei materiali. L’Istituto Luce negò loro i filmati d’epoca dei suoi archivi su ordine della Democrazia cristiana che non aveva alcuna intenzione di sostenere una lettura del fascismo che, tra le altre cose, conteneva una chiara denuncia delle responsabilità delle gerarchie cattoliche nel sostegno al Duce. D’altronde la parola d’ordine più gridata dai latifondisti e dai capitani d’industria, dai mercanti d’armi e dagli alti prelati fino ai più sinceri liberali era «meglio neri che rossi». I filmati furono così reperiti all’estero, in Francia, nelle due Germanie di allora, in Juogoslavia.

Vogliamo ricordare, in conclusione, che questo piccolo capolavoro del cinema italiano, che ebbe una diffusione di massa presso le sedi dei partiti della sinistra e del sindacato, non è mai stato mandato in onda dalla Rai (solo Alessandro Curzi lo mandò una volta nel 1994 quando era direttore di Telemontecarlo). Forse le ragioni sono in queste parole di Cecilia Mangini: «Per aver raccontato agli italiani la storia del ventennio fascista, sconosciuta ai più, rimossa, ignorata dall’insegnamento, resta viva e verde la nostra sfida alla politica programmatica democristiana che aveva deciso di rimuovere il ventennio dalla coscienza del paese, non solo con la congiura del silenzio ma anche e soprattutto mettendo il lucchetto a quelle immagini chiuse nei cellari del Luce. Quel lucchetto noi l’abbiamo effranto». (Dal volumetto che accompagna la pubblicazione del DVD del film presso Raro Video). Bisogna constatare, cara Cecilia, che in questa Italia in cui i fascisti continuano ad esistere e ad agire impunemente, la rimozione continua e che il lucchetto della Rai rimane ermeticamente chiuso.

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