Fra i ragazzi di Roma San Lorenzo, Bruno Ceccobelli subito si distinse, all’inizio degli anni ottanta, per il portato magico ed esoterico della sua pitto-scultura. Non erano tanto le determinazioni iconologiche da lui imposte pescando in una ricca congerie di tradizioni, occidentali e orientali, a convincere, quanto la messa in opera plastica, meglio architettonica, che bruciava tutto quello nell’improvviso frontale, nel compatto gravare polimaterico, nella potenza icastica – mai come qui cade bene la parola abusata. Chi si provi nel vedere, subito dopo la mostra di Ceccobelli a Todi, Palazzo del Vignola, quella del Maestro di San Francesco a Perugia, apprezzerà nella prima la lunga durata di un linguaggio secolare, nato nel Duecento italiano dalla scissione espressiva, patetica, dalla lezione meccanica di tradizione greca. Apprezzerà anche la familiarità dell’opera del tuderte Ceccobelli con quella del maestro corregionale, Alberto Burri, un nesso già evidenziato dalla critica ma che si giustifica davvero in una vasta prospettiva storica, al di fuori della vulgata contemporaneista.

La mostra (a cura di Carlo Vannoni, fino al 22 settembre) riguarda il decennio Ottanta, quando il lavoro di Ceccobelli sentiva dell’energia condivisa con gli amici artisti dell’ex-pastificio Cerere, un confronto quotidiano su cui poteva tarare le sue qualità personali, differenziandosi, innanzitutto, nel sottrarsi alla sirena concettuale. La riconsiderazione critica della storia di quel gruppo implica di mettere in valore certe continuità con i fratelli maggiori dell’Arte Povera, ma se alcuni, come Dessì, come Gallo, restavano sensibili all’‘opera aperta’, al ‘mentale’ che scardina in partenza ogni possibilità di compiutezza, Ceccobelli la compiutezza la cercava, e nel modo più perentorio: si servì dunque, esclusivamente, di quegli aspetti del poverismo che potevano inverarla; della materia, scabra, incondizionata, sùbito linguaggio, la materia-Burri che aveva fatto scuola nella neo-avanguardia.

Bruno Ceccobelli, “Salto in alto”, 1980, cenere, tempera, filo di rame e sangue di drago su garza intelata, collezione dell’artista

Speciale, l’occasione di Todi, per fare chiarezza sul vivo delle opere. In fondo non è tanto facile esperire un corpus così omogeneo e qualitativamente selezionato, proposto all’attenzione dall’artista stesso con il chiaro intento di spiegarsi, di orientare la lettura: questi i miei esordi, qui la pietra angolare. La forza abrupta e tellurica del linguaggio giovanile, appena trovato, a parte il merito intrinseco, sembra distendersi sull’opera intera fino ad oggi, qualificarla sostanziosamente, al di fuori di ogni stanchezza temporale, di ogni effetto di ripetizione.
Cinquanta i manufatti, ordinati in otto ambienti del piano nobile. Ceccobelli li definisce: «tavole di bene», «simbolismo spirituale, astratto-metafisico», «arte trascendentale». Secondo noi, innanzitutto, concretezza magica, devozione verso gli oggetti trovati, capacità sorprendente di comporli secondo costrutto, di trasformarli in un altro oggetto: il parallelo storico è con Kurt Schwitters. Sì, entro la nuova scuola romana Ceccobelli risaliva in questo modo alle fonti novecentesche, alchimia di feticci e sortilegi che fa dei pennelli frecce, di San Sebastiano l’artista stesso nella sua Passione, della cassa di legno una fremente icona (1986).

Se la radice dada è incontestabile, si coniuga alla ieraticità emozionata dei primitivi, all’imporsi solenne e immediato della forma, che mutua volentieri, dagli antichi modelli, struttura, carpenteria: La nascita di Venere, 1988, pala d’altare con le ante laterali a cassa, apribili a scrigno. Anche quando si tratta del recupero di una vecchia finestra (Artista re, 1987), il risultato è sacrale, non solo per il riferimento, pittoricamente sofisticato, ai simboli cristologici, il cui senso si rovescia sul ruolo missionario dell’artista-artigiano. Saranno gli anni ottanta, a noi sembra di sprofondare nei secoli! Il rosso Scipione, vivido, crepuscolare, malato, presiede al sogno della Chiesa cattolica nella città di Roma, una basilica piranesiana – «i due rosoni… un teschio allarmato» – sormontata dalla Croce inscritta in un sole: D’Atena, 1988.

Ceccobelli sembra meglio collegarsi alla sua stagione, che è anche quella della Transavanguardia, nelle opere più ‘giocate’, che avvertono la tipica ricerca di sottigliezze mentali-grafiche. Salto in alto, 1980: l’atleta, pura linea, si slancia sopra il filo di rame, che finisce in un grumo di sangue di drago: la parte bassa lo trattiene di qua, l’alta lo èleva, giusta la dialettica sapienziale, materia-spirito, a cui il nostro è particolarmente votato. Resta impresso il fondo di cenere. I Filosofi spiaggiati, 1984, grande disegno su carta catramata, una teoria di saggi nudi, color terracotta, disegnati alla brava: «simposio delle coscienze illuminate», prendono il sole, la Verità, ma soprattutto sembrano rianimare un modo ancestrale del vedere, l’etrusco.

Dal consistere accidentato dei materiali di recupero all’agilità della linea, è un costante cercare l’uscita dalla disarmonia del reale. Il pensiero è tutto incorporato nei mezzi: hai voglia a dire mago, qui si tratta dell’artista!