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Cecco del Caravaggio, flash implacabile

Cecco del Caravaggio, flash implacabileFrancesco Boneri detto Cecco del Caravaggio, "Cacciata dei mercanti dal tempio", Berlino, Gemäldegalerie

A Bergamo, Accademia Carrara, "Cecco del Caravaggio. L’allievo modello", a cura di Gianni Papi e di Maria Cristina Rodeschini Francesco Boneri: ne sappiamo grazie solo all’acume dei conoscitori, in primis Roberto Longhi. La prepotenza della sua cifra stilistica, magica e macchinosa, in una mostra (la prima a lui dedicata) non priva di difetti

Pubblicato più di un anno faEdizione del 16 aprile 2023
Francesco Boneri detto Cecco del Caravaggio, “Fabbricante di strumenti musicali”, Londra, Apsley House

Un «Francesco garzone» è documentato in casa con Caravaggio nel 1605; nel 1619 a un processo Agostino Tassi ricordava che «in una (stanza della villa Montalto a Bagnaia, alla cui decorazione egli aveva lavorato sei anni prima) ce dormiva io e meco ci stava Ceccho del Caravaggio»; in quello stesso momento (1619-’20) Piero Guicciardini pagava un altrimenti sconosciuto Francesco Boneri, detto in alcuni documenti «Francesco del Caravaggio», per una pala d’altare, rifiutata per ragioni non precisate; nel 1650 un pittore inglese in visita a Roma, Richard Symonds, annotava che nell’Amore vincitore del Merisi, oggi a Berlino e allora nella collezione Giustiniani, il maestro avrebbe ritratto «Checco del Caravaggio (…) his owne boy or servant (‘someone’ secondo la trascrizione più affidabile di Anne Brookes) that laid with him». Tutto qui; non sappiamo altro di Francesco Boneri alias Cecco del Caravaggio. Nessuna biografia contemporanea, nessuna tela firmata o datata, poche menzioni anche negli inventari dell’epoca.
Un po’ come Georges de La Tour, Cecco del Caravaggio è un pittore che conosciamo grazie quasi unicamente all’acume dei conoscitori; nel caso del Boneri quel merito va soprattutto Longhi. Partendo dall’unica menzione a stampa del nome di Cecco in una fonte seicentesca, un sonetto latino di Silos (1673) dedicato alla Cacciata dei mercanti dal tempio di collezione Giustiniani (oggi a Berlino), egli nel 1943 riunì intorno a quel dipinto il nucleo fondamentale delle opere di Cecco, a partire dal conturbante e spavaldamente omoerotico Amore al fonte di collezione privata (da leggersi in rapporto a quanto aveva scritto Symonds, che parlava di un rapporto anche sessuale tra il maestro e l’allievo), dal Flautista di Oxford, fino alla Resurrezione di Chicago. Quest’ultima difficilmente potrebbe viaggiare, ed è la grande assente alla mostra in corso (fino al 4 giugno, catalogo Skira) all’Accademia Carrara di Bergamo, Cecco del Caravaggio. L’allievo modello, a cura di Gianni Papi e di Maria Cristina Rodeschini, la direttrice del museo che continua così, dopo la mostra su Peterzano, nella sua intelligente politica di valorizzazione della tradizione artistica del territorio. È merito di Papi aver suggerito la possibilità che Boneri fosse bergamasco di nascita, intuizione che sembra ora confermata da vari elementi, in primis le ricerche archivistiche della sempre brava Francesca Curti. Sembra incredibile che nonostante la grande crescita delle nostre conoscenze sul Seicento romano, Cecco sia ancora una figura così sfuggente. Nel suo saggio Papi sottolinea ammirato l’«acume davvero rabdomantico» di Longhi, capace di ridare vita a quello che fino ad allora era solo un nome. Dopo sarebbe stata la volta di Luigi Salerno, che nel 1960 riferì a Cecco il cosiddetto Fabbricante di strumenti musicali di Apsley House e il San Lorenzo della Vallicella, e ancora di Sterling e Bologna, cui si devono le aggiunte delle tele finite a Varsavia e Bratislava. A parte (purtroppo) il già citato Amore al fonte, tutti o quasi gli altri pezzi forti, ovvero certi, del catalogo di Cecco si possono ora ammirare a Bergamo; e si tratta di un’occasione irripetibile.
Nel mare magnum della pittura caravaggesca, Cecco emerge con prepotenza, per una cifra stilistica tutta sua, perfettamente descritta da Papi: «Una pittura così votata all’iperrealismo si traduce in immagini forti, con una violenza compressa e intrinseca, con una sensualità programmaticamente ricercata nella nitidezza delle forme». Se per Caravaggio si parla a volte di azioni immobilizzate in un fermo immagine fotografico, per Cecco si deve evocare l’effetto di un flash implacabile, che esaspera tutto, spingendo l’iperrealismo a volte verso una sorta di realismo magico (il Fabbricante di strumenti), a volte verso uno strano ritorno a invenzioni complesse e macchinose, per nulla naturali (Cacciata dei mercanti). Questa cifra espressiva, mutevole ma sempre riconoscibile, sarebbe emersa anche con maggiore prepotenza se il percorso espositivo fosse stato più ‘compresso e intrinseco’, per dirla con Papi. Alcune proposte attributive lasciano infatti più che perplessi (penso ad esempio al San Francesco di collezione privata, che attesterebbe il linguaggio di un Cecco ormai lontano da Roma; ma anche a quello di Modena, più vicino forse al linguaggio gentileschiano; due tele, queste, che sembrano impossibili da ricondurre alla stessa mano), e più spesso si doveva almeno contemplare la possibilità che ci si trovi di fronte a copie da originali perduti: l’Uomo con coniglio della Granja de San Ildefonso non regge al confronto con la qualità altissima delle tele certamente autografe. La questione delle copie, si sa, è cruciale nel campo del caravaggismo, e anche una delle due versioni ridotte dell’Amore al fonte presenti in mostra non appare di qualità sostenuta.
In assenza di precisi appigli, ricostruire il percorso anche biografico di Boneri rimane impresa ardua, nella quale Papi si cimenta da solo, dichiarandolo: «Ne consegue che la ricostruzione dell’artista, per come ormai la conosciamo, è soprattutto responsabilità mia»; anche nel presente catalogo non c’è un dialogo con altri specialisti. In passato Papi, ormai il maggiore conoscitore del caravaggismo, ha messo a segno colpi memorabili (la ricostruzione del giovane Ribera; lo stesso collegamento della Resurrezione di Chicago ai documenti Guicciardini di cui si è detto), ma certe ipotesi critiche dovevano forse, in questa sede, rimanere confinate nel catalogo, piuttosto che illustrate nelle sale della mostra. Davvero Cecco fu a Napoli, molto presto, magari al seguito del Merisi (entrando in dialogo con Filippo Vitale)? E davvero tornò in patria, più tardi? Anche l’ultima sezione della mostra, quella sull’influenza ed eredità di Cecco, è al contempo illuminante e spiazzante. Innanzi tutto: Boneri, con ogni probabilità, doveva essere già morto nel 1642, ma l’attento Baglione non gli dedicò una biografia; perché? era stata ai suoi occhi una figura ininfluente? Cecco dovette essere in realtà a Roma una presenza forte per alcuni anni, e a lui guardò Juan Bautista Maino, ma la tela della Galerie Sarti di Parigi, presente a Bergamo, non è utile a supportare questa tesi. L’anonimo maestro battezzato da Papi come Monogrammista RG subì l’influenza di Cecco, ma a giudicare dai dipinti che gli sono riferiti, non sembra si trattasse di una figura rilevante nell’esaltante scena artistica dell’Urbe di quegli anni.
Non si poteva sottrarre la voce così caratteristica di Cecco alla polifonia del caravaggismo, ma una volta convocati a Bergamo anche Cavarozzi e Spadarino, Antiveduto e Finson (quest’ultimo, forse, ancora solo con una copia), rimane il rammarico per l’assenza di Gentileschi, che avrebbe permesso un confronto fra i panneggi superbi del San Lorenzo di Cecco e quelli del «più meraviglioso sarto e tessitore che mai abbia lavorato fra i pittori» (Longhi).
La sequenza della mostra della Carrara presenta in ogni caso tanti spunti di riflessione. Che costituiscono anche un invito a ripercorrere le sale dell’Accademia, appena riallestite in modo esemplare. Magari per verificare le ipotesi critiche di Papi circa, da una parte, il forte rapporto di Cecco con la pittura di Savoldo, ovvero di quel Cinquecento lombardo che nutrì prima di tutto lo stesso Caravaggio, e dall’altra di Evaristo Baschenis con quella proprio di Cecco, che lo specialista bergamasco di nature morte (1617-’77) avrebbe, chissà, potuto conoscere attraverso tele presenti allora sul territorio. O magari si tratta solo di quel genius loci che sempre Longhi aveva cercato di mettere a fuoco in una memorabile mostra del 1953, I pittori della realtà in Lombardia.

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