Nel gennaio del 1977 uscì negli Oscar Mondadori un volumetto antologico, curato da Carlo della Corte, contenente un florilegio poetico di Diego Valeri che andava dal 1910 al 1975.

Campeggiava in copertina un dipinto di Carlo Carrà intitolato Il ponte di Rialto, quasi a sottolineare il rapporto privilegiato con Venezia.

Nel controfrontespizio di quel libretto, dal titolo essenziale di Poesie scelte, era riportata una nota redazionale indicante che la pubblicazione avrebbe dovuto vedere la luce in concomitanza con il novantesimo compleanno dell’autore che, nel frattempo, era scomparso il 27 novembre 1976.

Dopo tale data, le liriche di Valeri, apprezzate da critici d’eccezione come Giacomo Debenedetti che firmò l’introduzione alla raccolta Il flauto a due canne e Pier Vincenzo Mengaldo che lo incluse nei suoi Poeti italiani del Novecento (mancano tuttavia al repertorio continiano dell’Italia unita), hanno subìto una damnatio memoriae che non ha intaccato invece i suoi baedeker veneziani.

Titoli come Fantasie veneziane (1934) e Guida sentimentale di Venezia (’42) continuano a essere proficuamente ristampati, quasi a evidenziare il felice connubio tra la leggerezza indiscutibile del suo dettato in prosa e la morfologia della città lagunare. Tutta la sua produzione risente in maniera indissolubile di tale simbiosi, tanto che Valeri sarà considerato per parecchio tempo, in maniera un po’ semplicistica e riduttiva, il cantore per antonomasia di Venezia.

Se si eccettua qualche isolato tentativo di riscoprire la sua figura (da ricordare la ristampa commentata di Umana per San Marco dei Giustiniani nel 2008 e la monografia Diego Valeri per Il Poligrafo nel ’13, entrambe a opera di Matteo Giancotti), l’attività poetica dell’autore veneto è caduta in una desolante forma di oblio.

Certo, avranno senz’altro influito ragioni di carattere contingente, insite nel particolare timbro valeriano, considerato da taluni troppo facile e immediato, come se Saba e Penna, fautori di quella linea antinovecentista, invisa al modernismo, che con il passare degli anni è stata avallata dalla critica con sempre maggiore slancio, non fossero poeti dal tono cristallino e lineare.

Ma tale facilità, singolarmente coniugata alla felicità espressiva («Son avido di gioia e infelice» recita un suo verso), si contrassegna come un momento irripetibile del nostro Novecento, trovando punti di contatto con la cantabilità dei succitati Saba, Penna o di Betocchi (è apparso di recente il carteggio Leggendo te, mi pareva di leggere dentro me, a cura di Gloria Manghetti, per San Marco dei Giustiniani).

Viene ora a sopperire a questa lacuna editoriale Il mio nome sul vento Poesie 1908-1976 (Il Ponte del Sale, pp. 304, € 30,00), a cura di Carlo Londero, il cui lavoro si segnala per acribia filologica e competenza. Si prende in considerazione una produzione complessa e articolata, che dalle raccolte sconfessate Monodia d’amore (1908) e Le gaie tristezze (1913), dal tono post-simbolista e crepuscolare, perviene agli splendidi approdi di Verità di uno (1970) e Calle del vento (1975), suggellate dalle postume Poesie inedite o «come» (1977).

Tra i due estremi un numero impressionante di pubblicazioni, talora declinate in ambito antologico, quasi a voler scaglionare in momenti precisi una poetica sostanzialmente fedele ai propri temi e motivi fin dagli esordi (della Corte per il suo «Oscar» aveva suddiviso la scelta in quattro parti con precise scansioni temporali, decontestualizzandole da ogni riferimento bibliografico, mentre Londero opta per un’ininterrotta progressione cronologica indicando la fonte in una dettagliata nota al testo).

L’evoluzione di questa poetica si riscontra in una graduale elaborazione del linguaggio che, con il passare degli anni, si fa sempre più essenziale e scarno, rinunciando all’originaria prosodia impostata sulla musicalità di quartine rimate o sull’uso di formule metriche consolidate (e un po’ prevaricanti: endecasillabi, versi martelliani ecc.) per approdare al verso libero delle ultime raccolte che si manifesta tramite una sprezzatura dagli esiti pur sempre classici, accompagnata al depauperamento delle rime.

Ma tale perfezione formale si bilancia con l’insistito ricorso a vocaboli o lemmi derivati da elementi naturali (foglie, rami, alberi, uccelli, nuvole, cieli), con sullo sfondo l’onnipresente vento che sembra conformarsi a Leitmotiv della sua stessa opera: «Qui c’è sempre un poco di vento, / a tutte l’ore, di ogni stagione: / un soffio almeno, un respiro. / Qui da tanti anni sto io, ci vivo. / E giorno dopo giorno scrivo / il mio nome sul vento».

Londero rimarca come certi spunti risentano in parte delle versioni che Valeri allestì da un manipolo di classici francesi e tedeschi (da Rutebeuf e Villon si arriva a Bonnefoy e Jaccottet, passando per Heine, Goethe, Hölderlin) di cui l’antologia offre in appendice un circoscritto ma significativo spaccato.

Si metta a confronto l’explicit succitato con il finale di Transitorietà di Hermann Hesse: «Il suo dito lievissimo / scrive nell’aria labile / il nostro nome». In quest’ambito va letto anche il curioso rifacimento di alcuni testi in francese che darà vita a Jeux de mots (1956) laddove, con minime varianti, Gli uccelli verdi diventano Les oiseaux verts e Statua bianca della notte si converte in Haute statue.

Condivisibile risulta la preferenza accordata alle ultime prove che raggiungono una purezza espressiva quasi unica nel panorama frastagliato del Novecento, esplicantesi mediante quella «particolare trasparenza delle cose» già rilevata da Zanzotto. Si leggano al riguardo La piccola antologia palatina o i versi, riprodotti anche in facsimile, di Non sapevo, con l’affettuosa dedica alla nipotina Silvia: «Non sapevo di avere alle mie spalle / l’angelo. Fu nel portare una mano / alla nuca che incontrai quella mano / tenera e lieve come foglia nuova: / la dolce mano dell’angelo / che dietro alle mie spalle / mi guardava in silenzio» (da mettere in relazione con Metamorfosi dell’angelo). Si veda qui l’uso di una sintassi ridotta ai minimi termini, nonché il ricorso alla dilogia – angelo, mano, spalle – con evidenti riverberi musicali connaturati alla strofa che procede modulandosi su un’intonazione idillica che, nondimeno, evita accuratamente il patetico.

Il pathos sentimentale si comprime in quadretti di composta perfezione come Anacreonte, sei vecchio, sviluppando una delicatezza di accenti che non disdegna di addentrarsi in quella temperie «pittorica e colorata» (Baldacci) che si enuclea in un segno rarefatto alla Semeghini, rinnegando le derive nevrasteniche, zigzaganti di un De Pisis rannuvolato dalle frustate di cobalto montaliane. Debenedetti richiama le «nubi di un bianco ala d’angelo» che figura nelle pale del conterraneo Cima da Conegliano.

Un discorso a parte merita il rapporto con Venezia che ha bisogno di puntellarsi su una tavolozza cromatica le cui combinazioni risultano elusive, esclusive: gli approdi estremi costituiscono il tentativo di ridurre ulteriormente la poetica degli elementi naturali, costringendo l’ampio spettro dei colori entro il pedale di un’insistita variazione su tonalità soffuse, delicate, di acquarello, con preferenza accordata all’azzurro mallarmeano. Se in Verità di uno le variazioni coloristiche traspaiono in filigrana nella sezione dedicata agli amici artisti, quasi come un’involontaria conseguenza del loro differente misurarsi con gli sfondi cangianti della città lagunare (si pensi a «Soli» di Saetti o «Burano» di Semeghini, oltre a Tancredi di cui si adombrano le tragiche vicissitudini), in Calle del Vento la città non solo non viene mai nominata ma, a eccezione di un paio di componimenti, non risulta nemmeno presente. Eppure essa è percepibile dietro le insistenti metafore di luce e ombra, nel rastremarsi di un campo semantico ridotto a pochi vocaboli sostanziali che si ripercuotono in maniera ossessiva.

Si sente che Venezia è sempre lì, sospesa nel labirintico affiorare delle immagini ricorrenti, tanto più presente quanto più paradossalmente accantonata.

Valeri non ha più bisogno di descriverla, di nominarla, in quanto riesce miracolosamente a restituirci la sua aura con lo schizzo di un interno attraversato da una lama di luce, di qualche passero saltellante sotto ai suoi balconi con l’irriverenza di un essere minuscolo che si accontenta di un’esistenza anonima, delimitata dal frullo abbozzato di un volo entro i chiaroscuri di una calle martoriata dal vento.