C’è grande fermento nella birra nostrana
Il fatto della settimanaa Gli 850 birrifici artigianali italiani sono in grande sviluppo anche se coprono solo il 3,2% della produzione. Il problema è riuscire a selezionare orzo di buona qualità
Il fatto della settimanaa Gli 850 birrifici artigianali italiani sono in grande sviluppo anche se coprono solo il 3,2% della produzione. Il problema è riuscire a selezionare orzo di buona qualità
C’è fermento nel mondo della birra artigianale italiana. A due anni dalla legge che ha introdotto la distinzione tra birrifici artigianali e industria brassicola, con la possibilità di dichiararlo in etichetta, il settore artigianale è in deciso sviluppo, anche se si tratta pur sempre di una nicchia (3,2% della produzione). Alcuni marchi sono in espansione e stanno investendo con prospettive di crescita, mentre altre etichette (troppo buone per restare artigianali?) hanno fatto gola a multinazionali che le hanno acquisite, è successo a Hibu, Birreria del Borgo, Birreria del Ducato. Dal canto loro, i grandi produttori cavalcano questa tendenza con etichette che enfatizzano il legame con il territorio, anche andando a riscoprire varietà antiche di cereali.
NUMERI E VOLUMI PERO’ DICONO POCO della qualità. Cosa differenzia la birra artigianale da quella della grande industria, solo il fatto che non sia né pastorizzata né microfiltrata? Da dove provengono le materie prime? La differenza di prezzo esprime sempre una qualità superiore? Chi beve birra ne è consapevole?
Le tracce di glifosato (diserbante considerato probabile cancerogeno da Iarc, agenzia internazionale per la ricerca sul cancro) e di funghicidi ritrovate grazie ad analisi compiute da diverse associazioni di consumatori in Germania, Francia e Austria (riprese in Italia dal Salvagente) dovrebbero far puntare i riflettori sulla tracciabilità delle materie prime, in primis l’orzo.
Fare la birra è un processo lungo, con molti passaggi e il più complesso e delicato è il primo: la coltivazione e la trasformazione dell’orzo in malto. Se i birrifici artigianali sono circa 850 in Italia, le malterie invece si contano sulle dita di una mano. Quindi, gran parte del malto proviene o dall’estero o dai maltifici industriali che lavorano enormi quantità di orzo in impianti e silos dove singole partite del cereale si mescolano ad altre, quindi la tracciabilità non può essere garantita. Con alcune eccezioni, naturalmente.
AD ANCONA IN QUESTI GIORNI IL CONSORZIO Birra Agricola (COBI) sta ampliando la propria malteria e ha nel cassetto il progetto di un nuovo impianto del valore di 9 milioni di euro. Qui i 130 agricoltori del COBI, provenienti da tutta Italia trasformano l’orzo per produrre «birra agricola», così si chiama la birra prodotta da agricoltori che hanno anche il micro-birrificio e possono godere del regime fiscale delle aziende agricole. Il controllo della qualità la garantisce il consorzio stesso.
«Noi arriviamo a scartare anche il 50% dell’orzo che ci viene conferito perché per ottenere un buon malto ci serve un orzo ad alto contenuto proteico, fondamentale per esaltare gli aromi e dare carattere alle nostre birre – ci spiega Fabio Giangiacomi, presidente del COBI – ma è difficile da trovare perché le industrie sementiere lavorano per lo più per la grande industria, quindi selezionano e mettono sul mercato varietà di orzo di qualità media, con un regime proteico più basso: l’industria lavora sui grandi volumi, noi piccoli puntiamo sull’eccellenza». Giangiacomi ci spiega che, per ragioni prettamente climatiche, certe qualità di orzo coltivate in Italia riescono a maturare in modo ottimale con caratteristiche aromatiche talvolta eccezionali. «L’Università di Firenze ci ha chiesto di segnalare le varietà antiche con aromi particolari così da utilizzarle per migliorare le varietà nuove: la birra artigianale italiana ha enormi potenzialità, tutte da sfruttare: però serve molta ricerca e investimenti», aggiunge Giangiacomi.
LA QUESTIONE CLIMATICA, OVVERO L’ITALIANITA’ dell’orzo, è un fattore determinante: l’orzo coltivato più a nord (Nord Europa e Canada) viene sistematicamente irrorato di glifosato come maturante e disseccante in fase di pre-raccolto, pratica vietata in Italia da alcuni anni, e del resto nemmeno necessaria. Fa bene sapere che i due grandi maltifici industriali, Saplo a Pomezia (Roma) e Agroalimentare Sud a Melfi (Potenza), dichiarano di rifornirsi di orzo 100% italiano da agricoltori del centro-sud con i quali hanno un patto di filiera, che prevedere anche la fornitura di semi. Se Saplo lavora quasi esclusivamente per Peroni (gruppo Asahi), Agroalimentare Sud si sta progressivamente attrezzando per trasformare in malto anche piccolissimi lotti di orzo ed entro un anno conta di poter realizzare una micro-malteria dedicata ai piccolissimi birrifici, quelli che producono 1000-1500 ettolitri di birra l’anno. «In effetti siamo spinti dalla crescente domanda dei micro-birrifici che vogliono lavorare un prodotto al 100% italiano – spiega Antonio Catalani, direttore di Agroalimentare Sud – per ora riusciamo a produrre lotti dedicati di malto e a conservarli in silos solamente per i birrifici che noi consideriamo di dimensione media, che producono almeno 30mila ettolitri l’anno».
L’UNICA MALTERIA A SERVIZIO DI UN MICRO birrificio è quella inaugurata il 15 giugno scorso a Gualdo Cattaneo (Perugia) da Mastri Birrai Umbri, impianto a tecnologia tedesca che intende garantire una filiera regionale della birra: tutti i prodotti che finiscono nel bicchiere, oltre all’orzo anche luppolo e legumi, sono coltivati in Umbria. Si tratta di una malteria che può produrre, anche per conto terzi, e con una linea per il biologico, fino a 70mila ettolitri all’anno, ben al di sotto dei 200mila ettolitri fissati per legge per i birrifici artigianali. Si può persino visitare (su appuntamento).
La scommessa di Mastri Birrai Umbri dimostra che maltificare in proprio è possibile. A sentire una delle aziende italiane che costruiscono impianti per malterie, la Zanin di Casale sul Sile (Treviso), ci stanno pensando in tanti. Zanin ha in catalogo anche micro-impianti per la maltazione. «Abbiamo richieste di preventivi da tutta Italia – ci dice Enrico Forasacco, dell’ufficio commerciale Zanin – c’è molta curiosità e attenzione per impianti che lavorano a piccoli lotti e garantiscono al 100% che la partita di malto prodotto contenga solamente l’orzo conferito». Un prototipo di questo impianto è già in funzione da due anni nell’azienda La Vallescura di Piozzano (Piacenza) dove una famiglia di sognatori – così si definiscono i Lafranconi – produce malto e birra biologica dai propri cereali e malto per conto terzi. «Anche noi andavamo in Germania a far maltare il nostro orzo quando ci siamo imbattuti in una piccola macchina e abbiamo capito che avremmo potuto farci il malto in modo davvero artigianale: noi impieghiamo 8/9 giorni a fare una partita di malto», dice con orgoglio Mauro Lafranconi.
UNA MICRO-NICCHIA DELLA BIRRA ARTIGIANALE è rappresentata dalla birra biologica, quella prodotta con cereali biologici che vanno stoccati in appositi spazi per evitare contaminazioni, senza additivi chimici, senza anidride solforosa. Per produrla serve un malto certificato. Al consorzio COBI sono attrezzati a produrre lotti di malto biologico, ma le richieste sono ancora poche anche se diversi consorziati producono già orzo bio. Giangiacomi sostiene che a disincentivare sia in parte la burocrazia, e in parte la dimensione delle aziende, in genere troppo piccole. «Per produrre buon orzo biologico servono grandi estensioni che possano garantire una rotazione delle colture di 4/5 anni, inoltre le aziende agricole devono essere attrezzate per pulire subito il raccolto e ventilarlo per prevenire le muffe». E poi c’è un problema di concorrenza: l’orzo biologico di provenienza extra-UE costa addirittura meno dell’orzo convenzionale italiano.
Dal birrificio agricolo biologico la Stecciaia di Rapolano Terme (Siena) ci dicono di non aver ancora trovato in Italia un impianto che garantisca di maltare il loro orzo: o perché troppo grande o perché troppo piccolo. Anche loro portano l’orzo a maltare in Germania, ma intanto si guardano attorno per valutare alternative. «Il problema in Italia è che il consumatore medio, quando beve birra è convinto di bere un prodotto naturale, quindi ha poca consapevolezza della qualità – dice Claudio D’Agnolo della Stecciaia – è anche una questione di costi: se gli alimenti biologici hanno prezzi in media del 20-30% superiori rispetto al convenzionale, nella birra biologica i costi sono molto maggiori».
INTANTO BALADIN, ORMAI STORICO MICRO-BIRRIFICIO agricolo di Piozzo (CN), annuncia una nuova etichetta in collaborazione con Altromercato, la bio Revolution: sarà prodotta con orzo biologico coltivato in Puglia su terreni caporalato-free, con malto garantito da Agroalimentare Sud che ha già una linea certificata bio. Anche in Baladin dicono di credere fermamente nella filiera biologica italiana, contano di arrivarci, ma non si nascondono le difficoltà, soprattutto per reperire il luppolo. C’è fermento nel mondo della birra artigianale italiana.
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