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C’è del marcio a Washington. Riparte negli Usa House of Cards

C’è del marcio a Washington. Riparte negli Usa House of CardsKevin Spacey

Serial Prodotti da David Fincher per Netflix, e con un cinico Kevin Spacey, i quattordici nuovi episodi scavano ancor più nel sottobosco della politica, così ricco di intrighi da mettere in imbarazzo Machiavelli

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 26 febbraio 2014

«Questo non è sport mia cara. È politica», dice mellifluo il senatore romano Kiefer Sutherland dagli spalti del circo in cui un gruppo di schiavi incatenati sta per essere massacrato dai legionari. Dal peplum di Pompei, alla Washington di oggi, in House of Cards la politica è elevata a sport. E uno sport che più sanguinario di così non si può. Nella seconda stagione della serie prodotta da David Fincher per Netflix, arrivata in rete il giorno di San Valentino (!) e immediatamente divorata nella sua interezza (14 episodi) da migliaia di fan, il sangue inizia a scorrere a partire dalla prima puntata, letteralmente.

Il senatore democratico del South Carolina Frank Underwood (Kevin Spacey che sfoggia con delizia tutto il suo repertorio di monarchi shakespeariani maledetti), arrivato alla soglie della vicepresidenza degli States, dopo una stagione di intrighi che avrebbero messo in imbarazzo Machiavelli, totalizza il suo primo morto pochi minuti dopo la fine dei credits dell’episodio numero uno (alla regia è Carl Franklin). «Tutti i gattini e le gattine prima o poi diventano gatti…», spiega Underwood dopo aver sistemato di persona «il problema», leccandosi i baffi, in uno dei tanti momenti in cui si rivolge direttamente a chi sta dall’altra parte dello schermo.

Il suo è un rapporto di complicità totale con lo spettatore che ben riflette la qualità estremamente tongue in cheek, ammiccante, della serie. L’attuale Congresso Usa registra indici di gradimento che sono al minimo storico e Obama non sta andando molto meglio ma (o forse proprio per quella ragione) Washington è senza dubbio il paese dell’immaginario più «it» del momento. Un Oz o uno Xanadu, virato di maligno e corruzione, dove presidenti innamorati di pr non esitano ad uccidere giudici della corte suprema (Scandal, che riprenderà a giorni), vicepresidenti incompetenti si perdono in cinici giochetti d’ufficio (Veep) o una coppietta da Norman Rockwell spia e uccide per conto del KGB in un pulpissimo ritorno di forza della Guerra fredda degli anni cinquanta ambientato durante la presidenza Reagan (The Americans). Se i palinsesti Usa sembrano attraversati da un’epidemia di darkness profonda, Washington si annida sicuramente in uno degli angoli più bui di quella darkness. È il trend sta contagiando anche Broadway, dove Brian Cranston è un Lyndon B. Johnson che non si ferma di fronte a nulla (un po’ come il Lincoln di Spielberg) o nessuno (Hoover, Martin Luther King, il senatore segregazionista George Wallace, la black panther Stokely Carmichael…) pur di fare approvare il civil rights act del 1964, in All the Way, la pièce di Robert Shenkkan che ha da poco iniziato un periodo di applaudita preview al Neil Simon Theater.

Diversamente da quelle del Johnson di Shankkan, o del Lincoln spielberghiano, le funeste macchinazioni di Frank Underwood non sono ordite ai fini di far passare una legislazione storica. Il potere e l’avanzamento di se stesso sono gli unici obbiettivi di questo animale politico ideato da Beau Willimon (che firma la serie, autore anche della piéce The Ides of March e della sceneggiatura dell’omonimo film di George Clooney). «Tutti i politici sono assassini o comunque devono essere disposti a esserlo. Noi mettiamo in scena una drammatizzazione di quell’assunto, permettendo loro di fare l’innominabile, che si tratti di facilitare l’omicidio di un deputato o di mandare 100.000 soldati in guerra», ha dichiarato in un’intervista al Daily Telegraph Willimon (già portavoce della campagna per la nomination presidenziale di Howard Dean nel 2003/4) . Non a caso, e nonostante tutti i colpi di scena che ti fanno consumare una puntata dopo l’altra come patatine, House of Cards è probabilmente la più teorica delle serie a sfondo washingtoniano attualmente in circolazione.

«Ci sono due tipi di vicepresidenti: gli stuoini e i matador. Quale dei due pensate che io intenda essere?», chiede ancora Underwood all’inizio della stagione n. 2 in cui acquista d’ importanza il personaggio di sua moglie Claire (Robin Wright), degna Lady Macbeth che in una delle scene cloux dell’anno scorso masturbava un uomo moribondo in ospedale con un misto di carità e disprezzo da togliere il fiato. Occupato su Gone Girl, Fincher è stavpòta assente alla regia. Dirigono, oltre a Franklin, James Foley, Robin Wright e Jodie Foster.

 

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