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Cccp, nostalgia canaglia (e a caro prezzo)

Cccp, nostalgia canaglia (e a caro prezzo)Cccp in concerto durante la tappa berlinese del tour lo scorso febbraio – foto Ansa

Eventi Preceduto dalle polemiche per l'elevato costo dei biglietti, il concerto della reunion della band tra luci e ombre

Pubblicato 6 mesi faEdizione del 23 maggio 2024

Un concerto a cui, per partecipare, bisognava fare la tara alle polemiche. Quasi sessanta euro per la prima data del tour “In Fedeltà la Linea c’è” dei CCCP, band che ha pubblicato quattro dischi negli anni ’80 e capitanata dall’ormai fin troppo controverso frontman Giovanni Lindo Ferretti. Biglietto esageratamente caro per chi ha professato (a modo suo) il verbo del punk; si sono riuniti per fare cassa; piazza Maggiore patrimonio della cittadinanza blindata per profitto (ultimo concerto a pagamento era stato quello dei Radiohead nel 2012, ma annullato per il sisma); il CUA (Collettivo Universitario Autonomo) di Bologna annuncia “un’autoriduzione” dei biglietti (annullata all’ultimo); e poi il travaglio di ritrovarsi in una malinconica e grottesca reunion di un pezzo della storia del rock italiano, con un gruppo dal nome emblematico e pesante ma il cui cantante s’è premurato di rendere noto che, quando può, prega per Giorgia Meloni. Per dirne una. Lo stesso giorno alle 18, al Centro Sociale della Pace in via del Pratello, era stato organizzato un incontro pubblico intitolato “Almeno i Clash erano gratis!”, evocando il concerto dei Clash del 1980 a Piazza Maggiore (anch’esso contestato) per discutere della deriva delle politiche sul turismo. Questi solo alcuni dei malumori pre-concerto.

DETTO questo è in verità poco comprensibile il perché ci si sia accaniti contro questa reunion, certo che è per fare cassa, allo stesso modo di tutte le altre band che arrivano in Italia magari con costi stratosferici, stiamo parlando di musicisti che vivono di musica, e ormai solo quella suonata. E poi chi ha parlato di “coerenza”, traditori del loro motto più noto “produci, consuma, crepa”, come se fosse una peculiarità imprescindibile di un frontman di cui, fra l’altro, chi scrive, non condivide nemmeno mezza idea. I problemi sono altrove e le energie poche per sprecarle, verrebbe da dire. Forse si poteva puntare più il dito su alcune operazioni di marketing, come l’aver fatto trapelare che l’unica data sarebbe stata quella di febbraio all’Astra Kulturhaus di Berlino, poi diventate tre. Certo, sono stati concerti esperienziali, imperdibili quindi, in cui bisognava esserci almeno se eri stato un loro fan, ma hanno attirato tanta gente ansiosa per l’unica occasione di rivederli suonare insieme. Mentre solo dopo i tre sold-out sono stati annunciati 10 concerti in Italia (ora diventati 14), questi ovviamente già in via di contrattazione da tempo, certamente non una scelta dell’ultimo secondo.

FORSE il malinteso, se così vogliamo chiamarlo, è aver investito la strabiliante poetica dei CCCP di simboli e significati che non c’erano, e che non c’erano mai stati, una proiezione idealizzata di un passato che si vuole immaginare collettivo e consapevole ma che, non solo in questo caso, torna pesantemente concreto e distante. Bisognerebbe domandarsi: perché per qualcuno è così importante cosa dice o cosa prega Ferretti? Che ruolo gli è stato attribuito? Nessuno, se non quello del pubblico che li ha amati e che li ama, che ha assegnato ai loro brani memorabili valori distorti legati all’antagonismo politico e culturale, come se avessero un background militante, manco fossero i Crass. Non era, né è tantomeno così, e a ben vedere nella piazza di ieri sera nessun degli 8500 paganti (più i senza biglietto che sono stati fatti entrare nell’ultima mezz’ora) pareva orfano di un qualche orizzonte ideale storico politico. Volevano solo cantare e ritrovarsi in quelle canzoni, o meglio in quella liturgia, magari riassaporando antichi aromi della sopita rabbia giovanile, briciole del dissenso. Ecco, di nostalgia (a caro prezzo) si è trattato in effetti, bastava guardarsi attorno e considerare l’età media degli spettatori, sebbene qualche sparuto gruppetto di giovanissimi.

Si resta attoniti, la gamma di sensazioni è variegata: i quattro potrebbero essere un pezzo da museo indifeso al passare del tempo e dell’anacronismo, quindi con una sua essenza rintracciabile in qualche modo; oppure completamente fuori luogo rispetto a una scenografia e a un palco tecnologicamente avanzato.

DUE INGRESSI, uno da Piazza del Nettuno e l’altro da Piazza Re Enzo, i soliti controlli, il palco davanti a Palazzo d’Accursio, sullo sfondo in alto a sinistra la Torre dell’Orologio. Il concerto inizia poco dopo le 21.15, boato per Ferretti, Zamboni, Annarella, Fatur e la band composta da Luca Rossi, Simone Filippi, Gabriele Genta, Ezio Bonicelli e Simone Beneventi. Si inizia con Depressione Caspica, Rozzaemilia e Oh! Battagliero, e nella prima ora in tanti si domandano cosa stessero facendo lì. La voce di Ferretti è sottotono, l’avanguardia all’inizio fatica a prendere corpo, se non fosse per la puntualità della chitarra di Zamboni e degli altri membri della band. Lo show – perché di questo stiamo parlando – non sembra preparato a dovere, con Fatur “Artista del Popolo” che nel suo girare a vuoto, può veicolare due accezioni: può incarnare il surreale come valore positivo, o semplicemente il grottesco, soprattutto quando sembra incerto sul da farsi, con quali attrezzi trafficare, dando piuttosto l’impressione di attenersi a una rievocazione storica. Annarella “Benemerita Soubrette”, bellissima e altera, prende il microfono e declama “Cellula dormiente risvegliata al presente all’erta sto, inquieto l’orizzonte”, tiene il palco ma allo stesso tempo più volte va a bisbigliare nelle orecchie degli altri, come se stesse provando, situazione che appunto in uno show dovrebbero essere rarità. Si resta attoniti, la gamma di sensazioni è variegata: i quattro potrebbero essere un pezzo da museo indifeso al passare del tempo e dell’anacronismo, quindi con una sua essenza rintracciabile in qualche modo; oppure completamente fuori luogo rispetto a una scenografia e a un palco tecnologicamente avanzato. Forse l’estemporaneità (che oggi chiameremmo incompetenza) che era la loro forza nei contesti alternativi in cui si sono forgiati diventa, a questo punto, poco compatibile (anche) con un concerto da 57 euro.

LA SECONDA ora e mezza lo spettacolo va più in bolla, anche la voce di Ferretti sembra più acuta e decisa, in equilibrio con gli strumenti, malgrado resti l’impressione che una grande piazza non sia congeniale ai CCCP, ma, è bene ricordare, è comunque la prima data. Emilia Paranoica accende il pogo. Ovviamente la simbologia e le contraddizioni impazzano, falce e martello, bandiera del PCI, Annarella in burka e poi vestita da suora in Libera me domine, misticismo, socialismo, integralismo. Dalla piazza partono timidi cori “Palestina libera”, forse nella consapevolezza che ci sono troppe contraddizioni concentrate in quel momento. Il repertorio più punk rock ne esce smorzato, Valium Tavor Serenase, Radio Kabul e Punk Islam, And the Radio Plays viene cantata dal pubblico a squarciagola. Arriva anche l’elettronica dei D.A.F. con la cover di Kebab Traume, stupisce la versione di Bang Bang fino a che non diventa chiaro che serve ad aprire Spara Jurij. Ferretti verso la fine prende parola: “Chi l’avrebbe mai detto che ci saremmo trovati qui a suonare a questa età”. Viste le premesse di qualche anno fa, in effetti nessuno. Si chiude con tutto il gruppo sul palco in piedi, solenni, ad ascoltare Ferretti mentre canta Amarti, solo accompagnato dalle note del violino di Ezio Bonicelli. Amami ancora/ Fallo dolcemente/ Solo per un’ora/ Perdutamente. Così come questo gruppo che tanto ha dato con le sue canzoni che canzoni restano, si può amarlo per due ore così come viene, poi possono pure ricominciare le polemiche. La folla inizia a defluire, sullo sfondo resta solo la scritta CCCP, una foto buona per i social.

 

 

 

 

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