Cavalier precursore
Sono passati esattamente otto anni da quando uscì un mio libriccino dedicato all’età berlusconiana, che scelsi allora di chiamare «era della democrazia autoritaria», dopo aver scartato altre formule ugualmente calzanti come «populismo mediatico» o «democrazia illiberale». Allora non mi era capitata sotto gli occhi la citazione dal Diario di Brecht che parla di un possibile «fascismo democratico» con riferimento al contesto americano, in sintonia – come ha ricordato Luciano Canfora in un suo pregevole saggio sulla Demagogia – con il discorso di Thomas Mann al Peace Group di Hollywood del 1848. Se l’avessi conosciuta forse l’avrei preferita.
IL LIBRICCINO si chiamava Berlusconi passato alla storia, era senza pretese ma aveva un’ambizione non troppo nascosta: quella di congedare il personaggio. Il titolo significava tante cose. Poteva equivalere a «passato al vaglio della storia» e quindi trattato, se vogliamo anche giudicato, con gli attrezzi dello storico.
Oppure poteva voler dire che nel bene e nel male, molto più nel male che nel bene, Berlusconi aveva ormai conquistato un posto nella storia ossia era riuscito a intestarsi un’epoca. Si poteva parlare a buon diritto di «età berlusconiana» appunto, esattamente come si parla di età crispina o età giolittiana o età guglielmina: un’epoca a cui un personaggio dà il nome, anche se non si esaurisce in quel protagonista.
Ma soprattutto conteneva la speranza, l’auspicio, che quell’epoca stesse avviandosi alla fine. Era il desiderio di uscire da un incubo che durava dal gennaio del 1994, quando il capo della Fininvest si era minacciosamente presentato come aspirante attore sulla scena della politica, e soprattutto dal marzo di quell’anno, quando la minaccia si era realizzata, assumendo le sembianze sue e – si tratta di un ricordo personale molto vivo – quelle dell’avvocato Previti comparso con lui sugli schermi televisivi nella notte della vittoria e presentato come futuro ministro della giustizia (un’apparizione orrifica di cui non mi sono più liberato). Era insieme l’illusione – forse un po’ ingenua – che egli fosse destinato prima o poi a uscire di scena così come vi era entrato, e il corso delle cose potesse ricominciare laddove la «discesa in campo», invero una «invasione di campo», si era verificata.
PERCHÉ OGNI STORIA che si rispetti deve avere un suo inizio e una sua fine, anche se inizio e fine non sono mai tagli netti ma piuttosto a loro volta processi. Trovare un inizio era abbastanza facile. In termini stretti lo si poteva collocare a cavallo tra 1993 e 1994: da quando Berlusconi aveva espresso inopinatamente il suo appoggio a Fini nel ballottaggio con Rutelli per la carica di sindaco di Roma (il che gli costò l’appropriata qualifica di Cavaliere Nero da parte di questo giornale) a quando appunto vinse le elezioni .
Volendo allargare lo sguardo, si poteva andare indietro alla crisi degli anni Novanta, con il crollo del sistema comunista, la fine della Guerra Fredda e gli scandali di Tangentopoli, che insieme avevano sgretolato il sistema politico della prima Repubblica, la «Repubblica dei partiti». Ancor più indietro e nel profondo si poteva andare avendo in mente i fenomeni economici, sociali e mediatici globali che avevano segnato gli anni Settanta.
Ma per quanto riguarda la fine? Qui il discorso – lo ammetto – si faceva più scivoloso e sfuggente. Rimaneva un punto interrogativo: fine di un’epoca? titolava infatti l’ultimo capitoletto, esprimendo più dubbi che certezze, più fosche previsioni che radiose aspettative: «Il futuro e la fine dell’età berlusconiana, sia quanto ai tempi sia quanto alle modalità, appaiono per ora avvolti da una fitta cortina di imprevedibilità. I pessimisti paventano anzi il delinearsi di una lenta agonia, foriera di ulteriori, inesorabili degenerazioni della vita politica e civile del paese».
NEL CORSO DELL’ANNO e di quello successivo sembrò che la situazione prendesse un’improvvisa accelerazione e questo mi spinse a chiedere all’editore (Donzelli) una seconda edizione aggiornata del libro. Forse si era al declino.
Gli scricchiolii appena avvertibili che avevano fin lì attraversato l’edificio berlusconiano stavano sfociando in veri e propri smottamenti: la clamorosa rottura con Fini, il dilagare degli scandali a sfondo sessuale con la rivelazione delle frequentazioni pericolose per un uomo di governo e della sua inclinazione a subordinare l’amministrazione dello Stato ai suoi interessi e alle sue passioni, la faticosa tenuta della maggioranza parlamentare solo grazie a pratiche di compravendita dei deputati, infine l’allarme e l’ultimatum dell’Europa per il degenerare della situazione finanziaria del Paese segnalata dalla crescita degli interessi sul debito.
Poi ci furono le dimissioni, preparate dalla nomina da parte del capo dello Stato di Mario Monti a senatore a vita e la sua successiva chiamata a presiedere un governo di emergenza.
Era la fine? Solo entro certi limiti.
E siamo alla storia degli ultimi anni. I governi Monti e Letta basati sulla larghe intese, pensati per uscire dal tunnel in maniera indolore, senza traumi. Poi l’avvento dell’era renziana, con l’illusione di un Berlusconi sconfitto con le sue stesse armi da un leader che possedeva pari energia, simili doti mediatiche e una qualità che a lui stava sfuggendo inesorabilmente: la giovinezza.
Ma Berlusconi non ha avuto la sua Hammamet. Colpito da condanne gravi e definitive (frode fiscale), espulso dal parlamento in forza di una legge nel frattempo approvata, ha scontato con brio la pena senza abbandonare il suo ruolo di leader della destra. È sembrato a lungo privo di eredi capaci di sostituirlo e di avversari capaci di distruggerlo davvero.
NELLE ELEZIONI del 2013, che dovevano suonare per lui il de profundis, ha riconquistato nel finale la scena riuscendo a non perdere e a non far vincere uno sbiadito Bersani. Consumato dal tempo nella sua vita biologica, ha utilizzato fino in fondo le tecniche della conservazione del corpo fino a subire una sorta di mummificazione preventiva ma non ha perso del tutto la sua facoltà di eseguire le parti scelte sulla scena mediatica.
Oggi, perfetta imitazione e protesi di se stesso, sebbene con rapporti di forza mutati rispetto alla Lega, tiene ancora banco come nel 1994 offrendosi in qualità di garante del moderatismo rispetto all’estremismo leghista (di cui è spesso in realtà la variante in doppiopetto e la cassa di risonanza) e come carta di riserva per un’alleanza spuria in caso di elezioni senza esito risolutivo.
Insomma, malgrado tutto, il mostro a più teste non è stato schiacciato.
A distanza di quasi un quarto di secolo, non solo la sua personale vicenda ma l’epoca aperta dalla sua irruzione nella politica italiana non si è ancora conclusa. Anzi essa è divenuta una linea di tendenza mondiale, culminando nel successo di Donald Trump negli Stati Uniti.
La simbiosi tra antipolitica e media di massa è passata dalla fase della videocrazia a quella del populismo digitale. Consumata la crisi dei partiti tradizionali, siamo passati alla democrazia senza partiti o al protagonismo dei partiti azienda, si chiamino Fininvest o Casaleggio&Associati, affidati a poteri che restano nell’ombra, in cui i leader scelgono i loro seguaci anziché viceversa.
Come ha scritto Alessandro Dal Lago: «Nella dimensione virtuale o digitale della politica, nuovi attori possono salire rapidamente alla ribalta grazie alla loro capacità di influenza nei social media». Di qui passano oggi l’erosione, lo sfiancamento della democrazia rappresentativa inaugurati da Berlusconi.
Per quanto superato, egli appare più come un capostipite che come una meteora. Più come un precursore che come un episodio eccezionale. È passato alla storia, ma è un passato che non passa.
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