Il 24 maggio a Roma Tre ci saranno le elezioni per il nuovo rettore: Giovanni Caudo è uno dei candidati. La campagna elettorale si è svolta in una crisi dovuta alle dimissioni anticipate dei due ultimi rettori: Mario Panizza nel 2017 e, nel marzo scorso, Luca Pietromarchi. In questi mesi si sono dimesse anche le due componenti esterne del cda, Cecilia Palombelli e Ambra Giovene.

Negli ultimi tempi il percorso dell’Università di Roma Tre è stato molto travagliato. Perché?

Un problema cruciale è la progressiva centralizzazione dei poteri. Il nostro è un ateneo molto differenziato. I diversi dipartimenti sono espressione di aree culturali molto ricche. Dunque Roma Tre, per funzionare in maniere equilibrata, ha bisogno di un governo capace di valorizzare le differenze invece di accentrare i poteri.

Qual è il principale elemento di discontinuità necessario?

Rafforzare il decentramento. Sostenere e incentivare l’autonomia dei dipartimenti in modo che possano esprimere tutte le loro specificità. Si tratta anche di un problema di risorse: i budget per i dipartimenti sono scesi dai 7 milioni del 2020 a 3,5 milioni. È chiaro che meno risorse ci sono, più tensioni si creano. Bisogna tornare al budget del 2020, affiancando all’autonomia dei dipartimenti il doveroso senso di responsabilità con una rendicontazione rigorosa dell’uso delle risorse.

Secondo lei sono necessari interventi per migliorare la democraticità nella gestione dell’ateneo?

Il Senato, dove sono rappresentati tutti, è il luogo della rappresentanza democratica. La riforma Gelmini aveva già aumentato i poteri del cda. Nel 2019 c’è stata in ateneo una modifica di Statuto che ha consentito l’introduzione delle commissioni miste cda-Senato con un ulteriore rafforzamento del ruolo del cda. Ma la questione democratica è più ampia: il personale denuncia una mancanza di equità nella distribuzione degli incentivi; talvolta c’è scarsa trasparenza su come si assumono le decisioni e mancano elementi reali di partecipazione democratica. Una delle questioni accentuate sia da me che dal collega Fiorucci – anche lui candidato rettore – è l’esigenza di migliorare la comunicazione tra le diverse parti dell’ateneo, ma bisogna anche aumentare la rappresentatività del personale Tab che oggi pesa per il 15%, ci vogliono sei persone per arrivare a un voto, e dei ricercatori a tempo determinato, il cui voto vale un terzo.

Qual è stato l’impatto della pandemia sull’ateneo?

La gestione Covid è un nostro fiore occhiello. Stavamo già muovendoci sul terreno del lavoro agile e a distanza e questo ha facilitato le cose. Ora il post Covid pone una domanda: come fare i conti con la digitalizzazione, che rischia di svuotare le aule e agevolare la partecipazione a distanza delle figure più deboli, come i disabili o le persone economicamente svantaggiate. Cercare la soluzione tecnologica a un problema che riguarda il diritto allo studio sarebbe una sciagura. Dobbiamo aumentare le borse di studio non lasciare le persone a casa creando una divisione tra studenti di serie A e B. Bisogna quindi raccogliere i contributi di tutti per creare un vero cantiere sulle modalità della didattica post Covid.

Come si pone il vostro ateneo rispetto al tema dell’interculturalità?

Questo è uno degli elementi che più e meglio hanno distinto Roma Tre nei suoi primi vent’anni. I temi della molteplicità e della interdisciplinarietà sono essenziali perché abbiamo sempre attribuito grandissima importanza alla «terza missione» dell’università, oltre alla didattica e alla ricerca: il rapporto con la società.

Come si pone Roma Tre nel rapporto con la città?

La crisi del 2008-11, risolta malamente, ha fatto emergere una trasformazione strutturale della città. Roma – soprattutto se guardiamo oltre i confini del Comune – non è più una città che vive di PA e di turismo. C’è invece una fortissima presenza dell’innovazione tecnologica e industriale che rende la città un polo produttivo particolarmente importante. Roma Tre deve essere in grado di cogliere e accompagnare questo cambiamento. Secondo me è proprio sulla capacità di rappresentare un punto di riferimento nella trasformazione strutturale di Roma, che il nostro ateneo si gioca la propria specificità.