Catturati nel vortice della trappola verbale
Anniversari Nel ventennale della scomparsa dello scrittore uruguayano Mario Levrero, l'editore perugino Pièdimosca propone il suo «A caccia di conigli»
Anniversari Nel ventennale della scomparsa dello scrittore uruguayano Mario Levrero, l'editore perugino Pièdimosca propone il suo «A caccia di conigli»
Il 30 agosto 2004, in un ospedale di Montevideo (la città dov’era nato sessantaquattro anni prima), moriva Jorge Mario Varlotta Levrero, meglio noto come Mario Levrero, che la sua amica e allieva Fernanda Trías racconta così: «Lo scrittore di culto, il fanatico dei generi minori, l’eremita, il maestro di tanti aspiranti alla scrittura, l’eccentrico, il fobico, il lettore generoso, la figura mitica, il fenomeno letterario». Accanto a Jorge, decisa a farne rispettare la volontà di non essere rianimato a ogni costo, c’era Alicia Hoppe, per molti anni sua compagna e oggi sua erede: ed è a lei che, a vent’anni dalla morte dello scrittore, dobbiamo la pubblicazione di Cartas a la Princesa (Random House, pp. 336, euro 21,90), in cui sono riunite le lettere che Levrero le scrisse tra il 1987 e 1989 da Buenos Aires, dove si era trasferito quando lo stato disastroso delle sue finanze l’aveva indotto ad accettare (lui che voleva soltanto scrivere e vedeva qualsiasi altro lavoro come un tradimento di sé) il primo e unico «impiego fisso» della sua vita, presso un editore specializzato in enigmistica.
SECONDO Ignacio Echeverría, curatore della raccolta, le lettere rappresentano un prezioso anello di congiunzione tra Diario de un canalla e El discurso vacío (Il discorso vuoto, Calabuig 2018), testi che, insieme allo straordinario e postumo La novela luminosa (Il romanzo luminoso, Calabuig 2014), formano una sorta di trilogia imperniata su una travolgente «scrittura dell’io», approdo ultimo di un’opera ampia e multiforme, la cui mappa include sia la tangibile influenza kafkiana dei primi romanzi, sia zone collegabili a un poliziesco rivisitato con audacia stilistica e sfrenata ironia, sia una narrativa breve legata a quello che il critico Ángel Rama chiamò, a ragione, il «libertinaggio immaginativo» levreriano.
Man mano che il canone letterario del suo paese ha allontanato dal margine questo maestro segreto, collocandolo in un «centro» dove già si trovavano Juan Carlos Onetti e Felisberto Hernández, le riedizioni e le traduzioni si sono infittite («gli stessi che rifiutavano di ripubblicare i tuoi libri ora se li strappano di mano», scrive Trías) e oltre all’antologia dei Cuentos completos (Random House, 2019), affiorano inattesi recuperi. Ecco, allora, gli incantevoli Cuentos cansados (Pequeño editor li pubblicherà con le bellissime illustrazioni di Diego Bianki), storie raccontate da Levrero, padre assonnato, al figlio bambino, ed ecco le Historietas reunidas (Editorial Criatura, 2019), ovvero i fumetti di cui fu sceneggiatore, firmandosi Jorge Varlotta. Che era poi il suo vero nome, come del resto Mario Levrero (secondo nome più il cognome materno): a Jorge erano affidati i lavori «mercantili», a Mario quelli letterari, ed entrambi furono accompagnati, agli inizi, da una nebulosa di pseudonimi.
MENTRE SI ATTENDONO i testi sparsi o inediti che Levrero pare abbia riordinato prima di morire, anche in Italia l’anniversario della sua scomparsa viene ricordato con A caccia di conigli (pp. 144, euro 15), un testo mai tradotto prima e magnificamente reso da Raul Schenardi, adepto levreriano della prima ora e autore anche della brillante postfazione che conclude il volumetto dell’editore perugino Pièdimosca, contraddistinto da scelte non convenzionali e da una cura editoriale e un’eleganza che si vanno facendo sempre più rare.
L’AUTORE, che negli anni ’60 affidava i suoi racconti a piccole riviste o a case editrici effimere, scrisse A caccia di conigli nel 1973 ma lo vide pubblicato solo nel 1982 in Lo mejor de la ciencia ficción latinoamericana, un’antologia compilata B. Goorden e A.E. Van Vogt per un editore spagnolo: una collocazione improbabile, che è forse all’origine di uno dei tanti equivoci sul rapporto tra Levrero e i generi letterari cosiddetti minori, da lui frequentati con passione e che certamente si infiltrarono della sua scrittura, ma solo per essere genialmente stravolti. Ramiro Sanchiz, critico e scrittore, parla in proposito di slipstream, intesa non tanto come zona di confine o di «scivolamento», ma come narrativa straniante, costruita intorno a un effetto di «dissonanza cognitiva», mentre altri prendono per buono l’autocertificato «realismo interiore» su cui Levrero insisteva, e altri ancora continuano a optare per una lettura in chiave fantastica e immaginativa (tentare di stabilire un’interpretazione ultima della letteratura di Levrero, di «definirla», è del resto un’impresa che da anni tiene occupata la critica letteraria).
PRIMA DI INABISSARSI e di circolare soltanto in fotocopia, nel 1986 A caccia di conigli divenne un volumetto per le Ediciones de la Plana, con illustrazioni della pittrice Pilar González cupe e grottesche, a differenza di quelle ironiche e sensuali del 2012 di Sonia Pulido per l’editore spagnolo El Zorro Rojo. E che il testo fosse anche illustrato non deve stupire: nella Entrevista imaginaria con Mario Levrero, in cui intervista sé stesso, l’autore ci ricorda che «non coltiva le lettere, ma le immagini», concetto ripetuto più e più volte nel corso degli anni a interlocutori differenti.
Composto da novantanove frammenti brevi e brevissimi la cui numerazione sembra esigere una lettura consecutiva, il volume è aperto da un Prologo (identico all’Epilogo finale, che però inverte l’ordine delle frasi, senza per questo perdere coerenza) in cui si introducono, con perfetta economia di mezzi, luoghi, eventi e personaggi. Il lettore potrà poi inoltrarsi in un bosco che è regno del desiderio e osservare da lontano il castello-fortezza da cui parte la caccia, simile a una guerra perpetua capeggiata da un «generale» idiota e combattuta da truppe disobbedienti, ma anche a un balletto, a un gioco, a un cartone animato, alla caricatura di un romanzo epico o di una fiaba, a un’inesausta lotta di classe o alla vita stessa, con infiniti scambi di ruolo tra cacciatori, guardaboschi, fanciulle lascive, ragni in vesti umane, orsi travestiti e, ovviamente, conigli.
I primi a comparire sono quelli di Carta a una señorita en París di Cortázar, citato in epigrafe, ma il bosco di Levrero potrebbe contenere anche i coniglietti suicidi di Andy Riley, la lepre dorata del racconto di Silvina Ocampo, l’immortale Bugs Bunny, il sinistro uomo-coniglio dei versi di Leopoldo M. Panero o le inquietanti creaturine che divorano carne guasta nel racconto Conigli bianchi di Leonora Carrington, distillato del più puro surrealismo (e proprio a sfumature surrealiste accenna Angel Rama, il primo accademico a notare gli scritti del «giovane Levrero» e a sottolinearne la novità).
In questo anti-romanzo arborescente e privo di trama, l’autore usa i conigli come simbolo, metafora, leitmotiv, satira, ossessione, pretesto poetico («Mettendo un coniglio vicino all’orecchio, si sente il rumore del mare»), occasione continua di metamorfosi e di humor sconfinato e assurdo, esercitazione pratica di nonsense e negazione di ogni causalità.
TUTTI I PERSONAGGI (e perfino le piante e i luoghi) possono cambiare pelle, infiltrarsi, camuffarsi, adattarsi, in un tourbillon di identità instabili e mutevoli che sovvertono ogni ordine, ogni gerarchia, in un testo mutante che fa esplodere ogni convenzione: un pozzo senza fondo da cui si può estrarre qualunque cosa, perché ogni frammento innesca la possibile nascita di altre storie e di altri mondi. E forse, come si legge nel frammento LXVII, «…tutta l’opera non è altro che una grande trappola verbale dei conigli per acchiappare definitivamente gli uomini».
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