Era la seconda metà degli anni Ottanta, il 1988 per la precisione. La televisione di allora, soprattutto quella commerciale di Silvio Berlusconi, aveva sdoganato da un po’ rutilanti programmi come Drive in e Colpo Grosso dove, accanto a molti comici, comparivano procaci signorine in succintissimi costumi pieni di colori e paillettes che mettevano in evidenza seni ipertrofici, grandi sederi, sorrisi ammiccanti, poderose cosce issate su trampoli, mossette, il tutto per la gioia di quel gusto maschile che guarda prima alla carne e alle curve e poi, forse, al cervello.

Era la tivù del riflusso con le Ragazze fast food, le Mascherine che, quando un concorrente indovinava una risposta, si toglievano un pezzo di abito fino a restare in mutande, le Veline (che ancora resistono su Striscia la notizia), e tutto un can can di lustrini che ha poi ha dato vita alle Letterine, alle Spintarelle, alle Madri Natura, eccetera eccetera.

SU RAI3, all’improvviso, comparve una signora elegante, e soprattutto vestita, che con garbo accoglieva in ogni puntata tre ospiti, rigorosamente donne, a volte famose a volte no, e le introduceva in un salotto foderato di broccati, velluti, tappeti, lampade orientali, le invitava ad accomodarsi fra cuscini e coffee table e lì si metteva a chiacchierare con intimità di loro, della loro vita, del loro presente, del loro passato, dei genitori, dell’infanzia, dei desideri, nella più tipica arte della conversazione, che non è chiacchierare tanto per farlo, e tanto meno è gridarsi addosso, ma mettere a proprio agio l’interlocutore per tirargli fuori quello che, forse, non avrebbe mai detto in tivù.

Quella signora era Catherine Spaak e quel programma, ideato da lei, si intitolava Harem. Con l’andazzo cui i telespettatori erano abituati, Harem avrebbe potuto naufragare nel giro di poche puntate, e invece resistette fino al 2002, con buoni ascolti, cosa che non gli risparmiò la chiusura.

Che cosa faceva sì che donne come Catherine Deneuve, Isabel Allende, Franca Valeri, Melania Mazzucco, Monica Bellucci, per citarne solo alcune, si svelassero con tanta spontaneità davanti a una telecamera? Era il savoir fair della padrona di casa, quella sua capacità di entrare in sintonia con l’ospite e farla sentire a proprio agio, non aggredita o indagata, ma sinceramente coinvolta in uno scambio, in un dialogo.

UN’EMPATIA così non nasce dal nulla, soprattutto non si costruisce con la foga di strappare un segreto, tanto meno con l’ammiccamento guardone. Le persone si raccontano con autenticità quando dall’altra parte sentono che c’è autenticità. È questa l’arte dell’intervista e Catherine Spaak ce l’aveva dentro, le veniva spontanea, le intervistate lo sentivano, gli spettatori e le spettatrici se ne accorgevano, e la seguivano.

Se penso a un termine per definire Spaak, il primo che mi viene in mente è discrezione, caratteristica di cui oggi ci sarebbe un gran bisogno, soprattutto in tivù. E poi conosceva i dolori della vita, le ingiustizie anche, come quella che subì quando il primo marito, Fabrizio Capucci, e la sua famiglia le tolsero la figlia Sabrina perché, come decretò il giudice, «essendo lei attrice, è di dubbia moralità». Era il 1962, Spaak aveva 17 anni, e questo rovinò per sempre i rapporti con la figlia.

In un’intervista dello scorso anno a «Il Giornale», l’attrice disse: «Non ci siamo mai più ritrovate. Non sono riuscita a recuperare quello che il magistrato ha rovinato. I Capucci fecero a mia figlia il lavaggio del cervello. Le hanno ripetuto: la mamma è cattiva. Ti ha abbandonato. Offese che hanno lasciato segni indelebili».