Ogni cittadina ha i suoi segreti – colpe sepolte nel passato, episodi di violenza e rancore, desideri inconfessabili che affliggono le vite degli abitanti ma talvolta rafforzano la coesione della comunità; specie una comunità fortemente religiosa come quella che fa da sfondo al terzo romanzo di Catherine Lacey, A me puoi dirlo (traduzione di Teresa Ciuffoletti, Sur, pp. 224, € 17,00) ambientato in un paesino rurale del sud degli Stati Uniti. Una domenica, gli abitanti si radunano in chiesa e vi trovano, addormentato su una panca, un estraneo che si esprime a gesti. Oltre al suo passato misterioso, a incuriosirli è soprattutto l’aspetto fisico, refrattario a qualsiasi categorizzazione: alcuni sono convinti che sia un uomo, altri giurerebbero sia una donna; c’è chi lo considera bianco e chi mulatto, o con malcelato disprezzo nero; chi ritiene abbia una quindicina di anni e chi invece è sicuro sia molto più giovane; quasi tutti suppongono che abbia subito un trauma e vorrebbero essere di aiuto, ma i più sospettosi ipotizzano sia animato da cattive intenzioni.

Panca – così viene soprannominato l’intruso – capisce bene quanto gli viene detto, ma alle domande si limita ad annuire o a scuotere la testa, assecondando le intenzioni degli interlocutori senza proferire parola. Riesce a comunicare con alcuni, seppure a stento, dimostrando particolare empatia per gli emarginati, i bambini che hanno subito traumi, gli anziani dimenticati, ma tutto ciò che riesce a dire è che non sa da dove viene né chi è; non ricorda nulla del proprio passato tranne sensazioni confuse provate da un corpo che considera una prigione; ogni tanto rivive frammenti di conversazioni con persone da cui ha ricevuto aiuto lungo il cammino.

Un topos della letteratura americana
Durante la settimana in cui è ospite di una famiglia non può fare a meno di ascoltare i monologhi che di volta in volta le persone gli rivolgono: tutti in paese sentono il bisogno di riversare contro il suo silenzio il fiume torbido di insoddisfazioni, frustrazioni e sensi di colpa che inquina le loro vite all’apparenza felici. Ben presto, però, l’enigma dell’aspetto fisico di Panca e il suo impenetrabile silenzio arrivano a tradursi in un insulto indiretto alla democrazia americana, perché, come afferma con frustrazione un avvocato, la trasparenza «è ciò che ci rende un paese civile: che possiamo dimostrare chi siamo e identificarci a vicenda!».

Quello dello straniero senza nome, che appare dal nulla a smascherare l’ipocrisia di una comunità, è un topos centrale nella letteratura americana: viene in mente la figura misteriosa che nell’Uomo che corruppe Hadleyburg di Twain invia un’ingente somma di denaro agli abitanti di una cittadina ritenuta incorruttibile scatenandone la cupidigia; o il proteiforme e demoniaco «uomo di fiducia» che, nell’omonimo romanzo di Melville, prima si guadagna la fiducia dei passeggeri di un battello a suon di citazioni bibliche e poi li priva delle loro certezze instillando in loro il dubbio.
Catherine Lacey sembra implicitamente rifarsi a questi e altri modelli letterari, tra cui il Malamud dello straordinario racconto «Cavallo parlante» (quando Panca riflette sul rapporto tra corpo e coscienza si chiede se sia possibile che «la mente, la storia, i ricordi e le idee di un essere umano vivessero all’interno del corpo di un cavallo, e se sì, quell’essere andava considerato un umano o un cavallo?»). L’assoluta originalità di A me puoi dirlo sta nell’avere reso voce narrante del romanzo questo Bartleby contemporaneo, estraneo alla società e al proprio corpo, ma in qualche modo oppresso e vittimizzato da entrambi. Il lettore è costretto a osservare la realtà esclusivamente attraverso gli occhi di Panca e a solidarizzare con la sua particolare percezione delle cose, quella del diverso, lo straniero nel senso più assoluto del termine, alieno prima di tutto a se stesso. La voce del narratore è straniante e straziante sin dalle prime pagine, quando si rivolge al lettore fissando le singolari coordinate spazio-temporali della propria esistenza: «È come se il tempo fosse altrove e quello che mi circonda non fosse il presente, bensì il futuro, un futuro possibile, mentre il presente è confinato in qualche posto che io non posso raggiungere per cui mi tocca vivere qui, in un futuro non meglio definito. Questo corpo mi pesa addosso, mi porta in giro, ma non sembra appartenermi, e anche se io potessi vedere i miei occhi non li riconoscerei». Panca sembra completamente avulso dal mondo creato dalle sue stesse parole, ma è distante anche dal piano di realtà del lettore e si rivolge a lui da una sorta di limbo, che alla fine del romanzo sembra comunque abbandonare definitivamente.

Il narratore di A me puoi dirlo ricorda da vicino il fantasma che in Beloved di Toni Morrison si manifesta come una giovane donna traumatizzata e indifesa che però vampirizza la famiglia presso cui è ospite, incarnando la violenza e le colpe rimosse di un’intera nazione. Forse non è un caso che Panca si risvegli in chiesa proprio alla vigilia del Festival del perdono – un annuale rito espiatorio durante il quale gli abitanti della cittadina confessano all’unisono i propri peccati in una cacofonia di preghiere e pianti liberatori, «affinché comprendiamo che siamo tutti quanti peccatori, che siamo tutti imperfetti, e dare a un altro la colpa dei propri problemi non serve a nulla». Ciò nonostante, qualcuno in paese insinua la necessità, durante il rituale, di compiere un sacrificio umano.

Catalizzatore dei mali sociali
Ancora una diversa chiave del romanzo è racchiusa nella lunga epigrafe iniziale, tratta dal racconto di Ursula K. Le Guin «Quelli che si allontanano da Omelas». Gli abitanti di Omelas vivono in uno stato di perenne felicità e non conoscono guerre, carestie o patimenti, ma la loro esistenza utopica è resa possibile dalla sofferenza di una singola persona, un bambino traumatizzato rinchiuso in una stanza: «Potrebbe essere un maschietto o una femminuccia. Dimostra circa sei anni, ma in realtà si avvicina ai dieci»; tutti gli abitanti sanno che il loro benessere dipende interamente «dall’abominevole infelicità di quel bambino», e l’unica alternativa per quei pochi giovani che non accettano queste condizioni e pensano di «gettare via la felicità di migliaia di persone per la possibilità di renderne felice una sola» è abbandonare Omelas senza farvi più ritorno. In questa ottica, la vicenda di Panca, oltre a dare corpo alla atavica storia del diverso, che funge da catalizzatore e bersaglio dei mali della società, allude anche al destino dell’outsider, di chi come Bartleby non accetta di basare la propria felicità sullo sfruttamento e la sofferenza di altre persone e quindi sceglie di rinunciare alla propria vita privilegiata, pur sapendo che diventerà a sua volta un capro espiatorio.