«Dio, intendi al mio adiutorio. Signore, affrétati d’aiutarmi. Tu hai permesso che io sia sola in questa battaglia». Nel gennaio 1380 Caterina da Benincasa scrive una delle ultime lettere al suo confessore e direttore spirituale, il frate domenicano Raimondo da Capua: ed è, come al solito, una lettera di lotta. Caterina era arrivata a Roma il 20 novembre del 1378. Questa «piccola donna che ci confonde» (sono parole del papa in carica, Urbano VI) era venuta nella città eterna dopo che il sacro collegio aveva eletto un secondo papa, alternativo a quello sul seggio di Pietro, Clemente VII. Caterina aveva un’idea intensamente organica del corpo della Chiesa. Che ci fossero due teste, era impensabile; che una parte del mondo cristiano aderisse all’antipapa (un «demonio» e un «anticristo», nelle parole della senese) era una ferita, anzi il netto taglio di un arto da quel corpo unitario, tenuto in vita dal sangue di Cristo. Ogni ferita era una perdita di sangue, un taglio netto di un membro: il membro imputridisce, il corpo impallidisce. Nello scorcio di un secolo tormentatissimo da guerra e epidemia, inizia uno scisma che durerà fin dentro il secolo dell’Umanesimo.

A ROMA CATERINA esorta i Cardinali, scrive ai sovrani che si fanno tentare dal demonio-antipapa, eccita le truppe per permettere al vero papa di stabilirsi a San Pietro, si sforza di tenere unite e fedeli le città toscane, che si erano ribellate lungamente al papa opponendosi al suo ritorno da Avignone, in Francia, a Roma. Ma soprattutto, scrive al nuovo papa. Sono lettere belle e disperate, di una disperazione eccitata, rotta dalla paura che il tempo sia troppo poco. Lo esorta a comportarsi virilmente, a cambiare in profondità la Chiesa, a cacciare via dal suo corpo i comportamenti che sono all’origine dei suoi mali (la corruzione, l’ostentazione della ricchezza, la simonia). Anche a Urbano, come aveva in maniera martellante richiesto al suo predecessore Gregorio XI, Caterina chiede, anzi pretende, due cose: un impegno per la crociata oltremare (che avrebbe risolto i problemi della conflittualità tra i cristiani, altro elemento inaccettabile per Caterina perché considerato come un’automutilazione) e soprattutto la riforma della Chiesa. È come mordere un arancio, ci dice in una lettera: prima aspro, poi dolcissimo.

Ma come sempre, i desideri di Caterina (e il suo instancabile e pratico attivismo) si scontrano con il pragmatismo della Curia e l’immobilità di un mondo che non è capace di seguirla: lei chiede un concilio di uomini «santi», una sorta di chiesa «spirituale» che sembrava quasi dover fare le veci dei Cardinali. Il papa ne convoca un gruppo a Roma, ma i grandi uomini evocati da Caterina neanche rispondono. Non è più il tempo, per loro, di intervenire sul mondo. Sono tempi in cui la religione si ritira su se stessa, vive lontano dai commerci umani, si dedica alla contemplazione più che all’attività.
Il papa allora fa delle nomine politiche. In un circuito conturbante tra la fisicità malata della chiesa e il dominio sul proprio corpo, Caterina intraprende uno dei suoi più terribili digiuni: digiuni non solo di cibo, ma anche idrici.

SALTANDO LE MEDIAZIONI, è a Dio che chiede di scegliere tra il suo corpo e quello della Chiesa: o guarisce l’uno, oppure l’altro. Dopo aver anche dal letto dato precise indicazioni ai suoi seguaci (la cosiddetta famiglia), gridò «Sangue, sangue!», morendo poi il 29 aprile 1380. Ha 33 anni, come Cristo.

Di questa donna minuta e magrissima, capace di proiettare sulla sua fisicità ostentatamente esile la sofferenza del mondo cristiano del suo tempo con digiuni e penitenze durissime, è rimasta soprattutto una parola potente, un urlo continuo e quasi scomposto che si trasforma in parola: 386 lettere e un Dialogo, un libro di riflessione sul proprio percorso interiore. Lettere e dialogo: la parola di Caterina si ostina a dirigersi all’altro, a donne e uomini del suo tempo, per accelerare l’azione prima ch’el tempo s’abrevi, costruendo vere e proprie campagne di propaganda non per forza velleitarie, anzi: nel suo progetto di Crociata, non privo di tratti fanatistici (gli infedeli sono definiti cani), arrivò a costruire un fronte e un esercito in procinto di partire nel 1377.

E QUI ARRIVIAMO alla storia editoriale di Caterina, che finalmente conosce, grazie agli sforzi dell’Isime (Istituto Storico Italiano del Medioevo), una svolta: è uscito il primo imponente volume dell’Epistolario di Caterina, che raccoglie 76 lettere inviate a destinatari le cui iniziali sono A-B, con un ricchissimo paratesto che spiega dettagliatamente i criteri della nuova edizione e infine un commento storico che permette al lettore di orientarsi nella lettura dei testi, che trovano il loro senso specifico (e forse più rilevante) proprio nel quadro di eventi e di relazioni concrete in cui intervengono.

L’impresa, coordinata da Antonella Dejure e sviluppata da un’equipe numerosa e qualificata (ogni volume avrà un suo responsabile), durerà degli anni, ma ci permetterà finalmente di leggere e comprendere un testo capitale della cultura e della storia politica italiana ed europea, sostituendo definitivamente l’edizione ottocentesca di Niccolò Tommaseo, riproposta dal fascistissimo Misciatelli nel 1930 secondo linee di interpretazione nazionalistiche e addirittura ostentatamente violente (nei Mistici senesi, Caterina era considerata una violenta «nella carità» come Bernardino da Siena lo sarà «nella predicazione»).

L’Isime aveva già patrocinato un’edizione: lo storico valdese Eugenio Dupré Theseider ne fece uscire un primo volume di 88 lettere nel 1940 (ordinate cronologicamente), e lavorò tutta la vita alla sua prosecuzione, che però non vide la luce. Il gruppo dell’Istituto ha lavorato anche sull’archivio di Dupré, ma ha ripreso il dossier per intero, pubblicando un censimento dei manoscritti nel 2021, nel quale si metteva a frutto una novità filologica di rilievo.

L’epistolario di Caterina circola in gran parte in raccolte realizzate perlopiù in relazione con la promozione del processo di beatificazione della senese. All’interno di queste raccolte, una grande importanza era stata accordata a quella preparata dal nobile senese Neri di Landoccio Pagliaresi, e trasmessa da un manoscritto oggi conservato a Vienna, nel quale a una prima stesura si accompagna una serie di correzioni: il paleografo Angelo Restaino ha dimostrato che le correzioni sono dello stesso Neri, e questo conferisce alla versione del testimone «corretta» lo statuto di una versione finale del compilatore. A questa giustamente si attiene l’edizione, registrando nella prima fascia di apparato la lezione non corretta, e tenendo presente anche l’intero spettro della trasmissione (descritta e giustificata in una nota che precede ogni lettera).

È UN PASSO IN AVANTI notevole anche rispetto all’edizione di Dupré, ma certo ci mostra come la filologia ci insegna anche ad arrenderci all’evidenza di una trasmissione mediata soprattutto da uomini – perché Caterina fu sempre sostenuta, ma anche controllata, da uomini potenti, nobili, cardinali, frati. La parola di una donna non poteva avere legittimazione se non attraverso tutte queste precauzioni. Caterina si fece schiacciare o controllare? È una domanda urgente ma difficile. Nel 1377 la senese scrive al suo confessore piena di emozione perché la Provvidenza le ha regalato «l’attitudine dello scrivere». Questa rivendicazione di autorialità aveva giustamente affascinato studiose femministe come Marina Zancan, e va affiancata alla piena consapevolezza di avere un ruolo nella salvezza del genere umano, rivendicando un ruolo di mediazione che era solo dei sacerdoti. In questa fessura tra autorità e legittimazione, tra controllo e consapevolezza, stretto e talvolta soffocante, sta tutto il conflitto di una lunga marcia femminile non ancora conclusa.