A Mario Levrero, scrittore grandissimo, non piaceva che la sua opera venisse inclusa nel fantastico o nella fantascienza (un equivoco, quest’ultimo, nato dal casuale esordio in una collana che conteneva numerosi titoli di science fiction), e a un intervistatore che gli domandava: «Dove ti collocheresti, allora?», rispose: «Perché vuoi incasellarmi?».

LA STESSA RISPOSTA, forse, potrebbe darla oggi Fernanda Trías – nata a Montevideo come Levrero, di cui è stata amica, allieva e collaboratrice – a quanti hanno applicato al suo Melma rosa (Sur, pp. 234, euro 16) la sbrigativa etichetta di fiction speculativa o fantascientifica.

Vincitore nel 2021 di un premio importante (il Sor Juana de la Cruz, riservato alle scrittrici di lingua spagnola) e tradotto assai bene da Massimiliano Bonatto, quello di Trías è in effetti un romanzo difficile da «incasellare», anche se non si può fare a meno di collegarlo alla crescente tendenza distopica della letteratura latinoamericana contemporanea, inevitabilmente attenta alle catastrofi ambientali e sociali, nonché incline a diluire o ignorare i confini tra i generi.

Scrittori come il messicano Emiliano Monge con Tejer la oscuridad, l’argentino Ricardo Romero con Big Rip, il colombiano Juan Álvarez con Áun el agua e molti, molti altri, hanno infatti ambientato le loro opere più recenti in un domani catastrofico, già leggibile in un presente che Melma rosa (pubblicato in lingua originale nel 2020 ma scritto ben prima che apparisse il coronavirus) sembra aver anticipato con allarmante precisione, tanto da riportare alla memoria dell’autrice un avvertimento di Levrero: «Attenta a quel che scrivi, può diventare realtà».

È LA VOCE della protagonista a raccontarci di una città portuale molto simile a Montevideo, assediata da un’epidemia diffusa da un impetuoso «vento rosso», sostituito a tratti da una nebbia densa e opprimente che permette agli abitanti di avventurarsi, muniti di mascherina, in un esterno fatto di negozi chiusi, vie deserte e ospedali al collasso, dove la polizia è onnipresente e i complottisti si dicono convinti che l’emergenza sia «tutta una balla organizzata dallo stato», mentre la televisione esalta l’abbondante produzione statale dell’unico alimento disponibile, una «melma rosa» simile a pasta dentifricia fatta di carcasse animali.

Muovendosi tra il continuo dipanarsi dei ricordi e un paesaggio desolato, che evoca lo sfruttamento selvaggio dell’ambiente da parte di un capitalismo cieco e predatorio, la protagonista si prende cura di un bambino condannato alla fame perpetua da una malattia genetica , senza per questo rinunciare a occuparsi di un eccentrico ex marito ricoverato in ospedale e di una madre cui è legata da un mai soddisfatto desiderio di approvazione.

Proprio attraverso questi legami, vissuti con sofferenza e con ostinazione, si dispiega l’altra faccia del romanzo, che esplora la complessità delle relazioni, la dipendenza affettiva, il groviglio di conflitti e contraddizioni che siamo abituati a chiamare «maternità» (qui rappresentata in chiave di costrizione e possesso, ma anche di elezione amorosa che va oltre il puro dato biologico) e, ultimo ma non meno importante, il riverbero interiore dello spazio urbano e domestico, stravolto dall’epidemia.

DAL CONFRONTO con le altre opere di Trías (tre romanzi, tra cui spicca il perturbante La azotea, e due libri di racconti), emerge il consolidarsi dei temi che le sono consueti: la paura, la perdita, l’incombere di minacce reali o immaginarie, la fatica dell’esistere in interni soffocanti (rifugio e carcere insieme), la costruzione del presente per mezzo della memoria. Quella che l’autrice ci offre è una prosa ormai solida e di straordinaria qualità, scandita da misteriosi frammenti di dialogo che suscitano un’ammaliante sensazione di straniamento, come a suggerire che il non detto, in una storia, ha la stessa importanza di quanto viene apertamente narrato.

Ogni pagina, infine, esibisce la trama di una scrittura visuale, ricchissima di immagini e sensazioni definite in modo rapido ed efficace: nebbia che imprime le sue lunghe dita su ogni cosa, muffa che, sotto la superficie intatta, solca in silenzio il legno, coltri argentee di pesci morti a pelo d’acqua, fiumi simili a un campionario di scampoli. E, alla fine, una città simile «a una carcassa ripulita che brillerà in lontananza nella sua luce cattiva», mentre la protagonista si avvia verso l’ignoto e ammette finalmente: «Non posso fermare un futuro che è già qui».