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Casorati, orchestra da camera con Magnani

Casorati, orchestra da camera con MagnaniFelice Casorati, "Le uova sul cassettone", 1920, collezione privata

A Mamiano di Traversetolo (Parma), Fondazione Magnani-Rocca, "Felice Casorati Il concerto della pittura", a cura di Giorgina Bertolino, Daniela Ferrari e Stefano Roffi L’incontro con il grande collezionista fu per il pittore torinese sotto il segno della musica. La mostra, nella villa vicino Parma, intende rievocare questo sodalizio e le sue «cadenze»

Pubblicato più di un anno faEdizione del 7 maggio 2023
Giorgio VillaniMAMIANO DI TRAVERSETOLO (PARMA)
Felice Casorati, “Ritratto del maestro Alfredo Casella”, 1926, collezione privata

In qualcosa dovevano già somigliarsi, il padrone di casa e il suo ospite. Luigi Magnani, che amava la musica (alla quale dedicò almeno un paio di saggi fondamentali) e collezionava opere d’arte in cui era spesso possibile ritrovare quei medesimi valori di costruzione e d’euritmia che governano la composizione musicale, e Felice Casorati, che da musicista, per un crollo nervoso in giovinezza, si fece pittore, senza mai dimenticare le leggi che aveva appreso quando studiava il contrappunto e l’armonia. Entrambi amavano le nature morte, le allegorie e quella forma particolare di romanticismo che, inscritto nell’aspirazione al bello ideale, venne a determinare lo spirito del classicismo ottocentesco.
Anche gli ambienti nei quali avevano scelto di vivere — la geometrica Torino «misurata come un teorema» di Casorati, lo studio appartato, e la villa dai severi arredi impero di Magnani — e il temperamento dovevano, al fondo, assomigliarsi e quegli amici, che periodicamente si riunivano in un piccolo consesso per leggere libri e ascoltare musica, come ai tempi di Madame du Deffand o di Madame Geoffrin, prendere, in questo come in quello, una stessa aria un po’ rigida da conversation piece. Sicché non ci stupiamo di ritrovare fra le stanze dalla Fondazione Magnani-Rocca le opere dell’artista (la mostra Felice Casorati Il concerto della pittura è curata da Giorgina Bertolino, Daniela Ferrari e Stefano Roffi, catalogo Dario Cimorelli editore), alle quali siamo introdotti attraverso le sale della musica, dove la disciplina che univa i due animi è variamente rappresentata.
Che qualcosa di matematico l’arte di Casorati lo possedesse fin dall’inizio lo mostrano le sue prime prove, incisioni soprattutto, Eva, La luce, La purezza, la cui koinè di Toorop e di Secessione fa pensare alla pittura di Vittorio Zecchin. Eppure, a confrontarla con l’opera del veneziano, troviamo che in Casorati lo splendore cromatico è meno acceso e la scansione lineare più pronunciata: una rigida misura era quanto il pittore richiedeva adesso al disegno e al colore dopo averla domandata alle note; ed era naturale, perciò, che cominciasse col rivolgersi a mezzi espressivi più austeri, come lo sono per loro stessa natura l’acquaforte o l’acquatinta, e che nei quadri di questo periodo – il Ritratto della sorella Elvira, o le due vaste tele Bambine sul prato e Le vecchie – il simbolismo allora in voga (Le signorine, almeno per quel che attiene ai nomi dei personaggi indicati dai cartigli in basso, Bianca, Dolores, Violante, Gioconda, risentono ancora del dannunzianesimo infeudante) vi prenda l’accento pacato e vagamente autunnale delle liriche di Verhaeren o di Rodenbach. Ma se il linguaggio fu quello corrente, non comuni furono i risultati, giacché Casorati col grande Notturno esposto nella seconda sala doveva realizzare quello che può considerarsi, assieme ai pannelli delle Mille e una notte di Zecchin, il capolavoro della Secessione italiana.
I fastigi della sua arte erano, tuttavia, ancora di là da venire. Casorati possedeva uno studio in «una casa appartata in un cortile silenzioso» di Torino. Nella città subalpina, dove aveva preso a vivere a partire dal 1919, l’artista passava i suoi giorni — se vogliamo seguire la poetica descrizione dell’amico Italo Cremona — a «imbeversi della luce», di quella luce che cadeva netta fra le vie regolari, sicché le ombre parevano «tagliate con le forbici» e ogni palo, ogni tronco «stilo di meridiana», ma, soprattutto, trascorreva il tempo «a guardare dentro la sua casa, a stupirsi di una fuga di stanze, a fingersi d’un davanzale orizzonte, d’un pavimento cammino, d’un’ombra colonna, traguardo».
Ricreato in quel suo piccolo studio, lindo e luminoso come una scena metafisica, il mondo esterno doveva prendere le fattezze d’un polito incastro marmoreo, simile forse a quella cold pastoral di cui parlano i famosi versi di Keats. Una foglia che non è una foglia, ma somiglia a una pietra commessa a un’altra pietra, un libro che non è un libro tanto ricorda quelli intarsiati nello studiolo del Duca di Urbino: «Thou, silent form, dost tease us out of thought / As doth eternity: Cold Pastoral!». A cosa doveva rispondere questo universo? Al reale o alla sua platonica radice? In Le piantine, nella Silvana Cenni o ne Le due sorelle codesta eternità s’assapora nei corpi che hanno la stessa immobilità delle cose, quasi che un millenario letargo avesse finito con l’eguagliare l’animato all’inanimato e fatto scivolare lentamente da questi diuturni golem il cartiglio con su scritto aemaeth. Il linguaggio era ancora quello del tempo — il ritorno all’ordine — ma il gioco di simmetrie e opposizioni, la ripetizione delle figure (ne Il concerto Casorati arrivò a trarre tutto il gruppo di ragazze dalla stessa modella) danno ai dipinti un tono particolare come di soffocata circolarità, che può richiamare certe composizioni di César Franck (il Preludio, Fuga e Variazione, op. 18, per esempio, o il Preludio, Aria e Finale, op. 23), artista ossessionato, come Casorati, dalla reiterazioni di pochi motivi.
E sempre rimanendo negli stessi termini di paragone, è difficile non notare l’analogia con la coeva ricerca di Alfredo Casella (di cui possiamo ammirare il ritratto commissionatogli dal compositore stesso nel 1926), volta al ripristino delle forme antiche nel vagheggiato ideale d’«una musica intesa come astrazione e costruzione pura». Parole, queste di Massimo Mila, che potrebbero ripetersi senza troppe modifiche per le opere che vediamo esibite in queste sale, e che, non a caso, serbano la genericità dei titoli delle opere strumentali: Maschere, Abbandono, Donna al mare, Conversazione platonica. Lì si recupera la forma della burlesca e della passacaglia, qui la lezione di Piero della Francesca e del Mantegna: i mezzi cambiano, i fini però sono i medesimi.
Nel Dopoguerra, Casorati continuò a insistere sui suoi temi familiari: i nudi (Nudo di schiena, Bambino nello studio, Clelia), le quiete composizioni di case squadrate (Siena, Varigotti) e quelle uova, soprattutto (Uova nel paesaggio, Uova su fondo rosso), che paion cadute da una fra le sue opere predilette: la Pala di Brera. La gamma qui e lì più accesa, le dissonanze più audaci mostrano come la suprema maturità raggiunta gli permettesse di ricondurre ormai al rigore della forma un’escursione ben più ampia di toni. Ma, accanto ad opere maggiormente intimiste (Narciso, Bambine abbracciate, Ragazza che pensa), è come se si fosse liberato qualcosa di giocondo e sereno. L’ultima sala è piena di schizzi teatrali, bozzetti di costumi e disegni per scenografie di teatro: è il mondo favoloso, sebbene talora un po’ lugubre, di Bartók, di De Falla e di Italo Montemezzi: Il principe di legno, L’amore stregone, L’amore dei tre re. V’è anche uno Spaventapasseri, vestito di tutto punto come il Cavaliere inesistente, quasi che nel concerto alla gravità degli archi si fossero aggiunte le note fresche e impertinenti del clarino.
Forse, l’ultima delle affinità di Casorati coi favoriti del regno di Euterpe, fu appunto questa della maturità con Giuseppe Verdi, che aveva screziato la sua ultima opera, il Falstaff, di giocoso distacco. L’artista che, simile a Goethe, aveva sentito l’architettura pittorica come musica congelata sperimentava adesso, nelle scenografie per i balletti, la musica come architettura liquida, osservando le mobili forme dei costumi sullo sfondo immobile delle scene. E lo faceva con la grazia d’un anziano maestro.

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