Negli ultimi tre decenni si è diffusa nello spazio pubblico, in modo sempre più invasivo e permeante, una lettura della storia rovesciata e distorta che mira a divellere le radici fondative della Repubblica costituzionale antifascista rimpiazzandole con uno sbilenco richiamo alla cosiddetta «democrazia liberale» (che in Italia ha significato un regime monarchico, senza diritti per donne e classi popolari, che per salvarsi spalancò le porte al fascismo) tanto storicamente incerto quanto politicamente decifrabile in chiave anti-Resistenziale.

IN UN CONTESTO SEGNATO da un lato dalle posture pacificatorie della «sinistra di mercato» (interessata alla normalizzazione politica ed alla rimozione del peccato ideologico) e dall’altro dall’estensione regressiva della destra postfascista ascesa alla guida del governo (e dunque in grado di esercitare in modo diretto il controllo istituzionale della retorica celebrativa in ordine al calendario civile nazionale) il lavoro di ricerca offerto dal volume La morte, la fanciulla e l’orco rosso. Il caso Ghersi: come si inventa una leggenda antipartigiana (Alegre, pp. 296, euro 18) diventa un prezioso, fruibile e concettualmente solido strumento di resistenza culturale che si incarica di spegnere il vociare della «storia parlata» e «del sentito dire», sostituendola con quella studiata e restituita alla ragione dei fatti.

Autore del libro è un intellettuale collettivo ovvero il gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki che da anni si occupa di revisionismi e falsi storici declinati alla riabilitazione dei fascismi.

La vicenda da cui muove il ragionamento del volume (che nel complesso affronta il tema dell’uso pubblico della storia) è quella relativa a Giuseppina Ghersi, uccisa a Savona nei giorni della Liberazione dell’aprile 1945 e divenuta «martire della violenza partigiana» per il tramite di narrazioni distorte e racconti senza fondamento propagandisticamente presentati da gruppi e ambienti neofascisti e poi riproposti all’opinione pubblica da quei mass-media nazionali pervicacemente propensi a non verificare nulla di quanto scrivono.

Nicoletta Bourbaki, al contrario, offre una lezione su come la ricerca d’archivio; il confronto critico delle fonti; la collocazione contestuale dei fatti raccontati e la loro resa di complessità rappresentino strumenti indispensabili di difesa e rispetto della propria intelligenza e indipendenza di giudizio.

Il volume decostruisce falsità e cronache voyeuristico-sanguinarie prive di conferme documentali del «caso Ghersi». Lo fa nell’unico modo corretto ovvero con un approccio tutt’altro che difensivo ma dichiaratamente chiarificatore e pronto al conflitto culturale in campo aperto.

«MOSTREREMO che Giuseppina Ghersi era una spia fascista – scrive Bourbaki – e le sue delazioni potrebbero essere state alla base di arresti, deportazioni e fucilazioni; si accompagnava a marò repubblichini e brigate nere; minacciava e terrorizzava le persone che sentiva criticare il regime». Le pagine osservano, infine, come non esistano riscontri di uno stupro ai danni della Ghersi di cui la «infosfera» (come viene definito nel libro lo spazio pubblico dell’informazione) accusa i partigiani.

Tuttavia il maggiore pregio del lavoro risiede nella sua vivace intelligenza educativa.
Il libro è un piccolo manuale di metodo analitico, frutto dell’intendimento della cultura come strumento orizzontale e democratico, che analizzando il «caso Ghersi» presenta una ricognizione su quella involuzione delle idee e dei concetti che verticalmente (dall’alto delle classi proprietarie verso il basso dei ceti popolari) modifica contenuti e senso della storia (la Resistenza) mirando a mistificarne gli esiti (la Costituzione) nell’ottica del controllo del passato per il governo del presente.