L’Italia è paese di grandi editori e di pochi lettori. Questi pochi sono però spesso anche «forti e fortissimi», e sostengono da soli buona parte del mercato librario. Lo dicono i dati sulle vendite, presentati al Salone del libro di Torino (220 mila presenze in pochi giorni!). Anche se in lieve calo rispetto all’anno scorso, i numeri di questi primi mesi del 2024 sono un confortante consolidamento del trend positivo innescatosi dopo la pandemia. L’editoria italiana è dunque un’industria con i piedi ben piantati a terra, e i suoi lettori come i proverbiali nani sulle spalle dei giganti. Ciò è tanto più vero se si guarda alla sua storia, spesso inestricabilmente intrecciata a quella con la S maiuscola. Due libri appena editi danno occasione di ripercorrerla.
Nel suo ultimo lavoro, Tommaso Munari racconta la storia dell’editoria italiana novecentesca. L’Italia dei libri (Einaudi «Passaggi», pp. IX-272, euro 18,50) ambisce infatti a esserne una narrazione in dieci momenti esemplari, non senza alcuni affondi nel tardo Ottocento e con una predilezione per i protagonisti del Nord-ovest. Il lettore non si aspetti dunque una disamina puntuale del variegato panorama nostrano, per il quale si rimanda al documentatissimo La competizione editoriale di Bruno Pischedda (Carocci, 2022). Tuttavia, in pagine scritte con la sapienza dell’affabulatore e la limpidità del maestro, Munari ricostruisce i primi passi di alcuni grandi editori, cogliendo nelle origini della loro attività l’impronta futura, il segno duraturo del loro lavoro. Talvolta è una singola caratteristica a illuminare una più estesa attitudine verso i libri e la loro fortuna commerciale: di Giulio Einaudi, l’autore rievoca la vocazione saggistica e l’aspirazione a ragionare per collane, le quali come «in un sistema di classificazione bibliografica» corrispondevano a una classe («Saggi», «Narratori italiani», «Narratori stranieri tradotti» ecc.), mentre di Giangiacomo Feltrinelli ricorda il fiuto per l’ideazione di casi editoriali clamorosi, come la prima edizione mondiale del Dottor Živago di Boris Pasternak (1957) o il più contenuto (ma non meno decisivo per l’Italia) Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1958) , che in tre anni vendette circa 400 mila copie. Per Luciano Foà, invece, Munari si concentra su un’agendina (8 x 11,5 cm) datata 1962, all’interno della quale l’allora aspirante editore era solito appuntare costellazioni intere di titoli apparentemente casuali, ma che in realtà già tradivano un gusto preciso: quello per le opere poco note – alcune delle quali avrebbero poi visto la prima traduzione italiana nell’elegante veste editoriale della «Biblioteca» Adelphi. Di Elvira e del marito Enzo Sellerio, infine, fondatori dell’omonima casa editrice, Munari ripercorre i primi passi sotto l’egida di Leonardo Sciascia, il quale si rivelò decisivo per lo sviluppo dell’azienda. Senza trarne alcun guadagno economico, Sciascia insegnò infatti ai Sellerio le regole per stendere un contratto editoriale e contribuì con le sue conoscenze nel mondo letterario a intercettare molte delle opere destinate a confluire in collane di sua ideazione, quali «La civiltà perfezionata», «La memoria», «La diagonale», «Il divano».
«Sciascia fu solo uno – scrive Munari – dei tanti scrittori prestati all’editoria nel corso della sua storia. La figura del letterato-redattore, ossia di uno scrittore retribuito da un editore per svolgere un lavoro redazionale – e dunque non un «letterato editore», come vorrebbe una formula tanto invalsa quanto inesatta –, è talmente consolidata da rappresentare quasi una tradizione, il cui capostipite potrebbe essere considerato Giosue Carducci». La storia dell’editoria italiana rifulge di celebri scrittori che parteciparono in qualità di direttori alla conduzione di prestigiose collane. Tra le tante, occorre almeno menzionare la «Biblioteca romantica» (1931) e «I meridiani» (1969) mondadoriani, diretti rispettivamente da Giuseppe Antonio Borgese e Vittorio Sereni, «I gettoni» einaudiani di Elio Vittorini (1951) e la «Biblioteca di letteratura» (1958), pubblicata da Feltrinelli sotto la guida di Giorgio Bassani.
Non è però solo una storia di grandi personalità quella che ci viene narrata. Il libro di Munari infatti non dissocia mai il piano strettamente tecnico dell’editoria – quale lento processo di «emancipazione» dal mestiere di tipografo e di libraio – al piano politico-sociale della nazione, attraverso le diverse fasi che ne contraddistinguono la storia. Sin dal Risorgimento e dalla necessità di una lingua e una cultura unitarie – d’obbligo qui il rimando al romanzo Cuore di Edmondo De Amicis (1886) e allo strano caso della Scienza in cucina di Pellegrino Artusi (1891) –, l’editoria italiana ha infatti reagito alle sollecitazioni esterne: adattandosi, ad esempio, alle nuove leggi in materia scolastica, mediante l’istituzione di antologie di successo come quelle Zanichelli; o al contrario anticipando il gusto dei lettori – come quando Arnoldo Mondadori iniziò a distribuire romanzi gialli e rosa, anche di discreta fattura, nelle edicole di tutta Italia. Oppure, ancora, operando carsicamente, sottotraccia, affidando ai soffietti editoriali, alle copertine o alla semplice scelta di un titolo da pubblicare un inequivocabile valore politico: è il caso di Giulio Einaudi che, nel 1942, decise di dare alle stampe – in pieno conflitto mondiale – una nuova traduzione di Guerra e Pace di Tolstoj a cura di Leone Ginzburg.
Ma la storia dell’editoria italiana può essere raccontata anche da una prospettiva differente, valorizzandone la dimensione geografica e le specificità di ogni «piazza». È quanto ha fatto Roberto Cicala con Andare per i luoghi dell’editoria, pubblicato per i «mugnai» del Mulino in occasione dei settant’anni dalla fondazione della casa editrice bolognese (collana «Ritrovare l’Italia», pp. 190, euro 14,00). Si tratta, anche in questo caso, di dieci storie, raccontante con perizia, secondo un principio ordinativo di tipo spaziale. Andare per i luoghi dell’editoria è un viaggio personale e soggettivo in alcuni luoghi segreti delle città italiane: le redazioni più o meno nascoste o inaccessibili delle case editrici, dove con solerzia artigiana si «cucinano» i libri; e le parole, incontrando le professioni più diverse, vengono rese appetibili e disponibili ai diversi palati dei lettori. Da Torino a Palermo e da Venezia a Bari, passando per la Milano capitale dei grandi gruppi editoriali (con il centro di Segrate) e la Roma delle sigle autonome, Cicala si sofferma sui principali editori del Paese, scegliendo tra i cinquemila marchi registrati che ogni anno pubblicano oltre ottantamila titoli, senza tuttavia trascurare editori più piccoli e giovani, dislocati in zone più periferiche o provinciali, a dimostrazione della complessa articolazione dell’editoria italiana, vera e propria polifonia policentrica o – come suggerisce Cicala, con suggestiva metafora – arcipelago di «bibliodiversità», costellazione di isole nata dai più diversi sogni di cultura o di imprenditoria, e che assumono forma di libro.
«In ogni casa di editore (il) rimescolamento è la vita di tutti i giorni, tra materialità della forma e immaterialità del contenuto: una scommessa non sempre vinta dal punto di vista del mercato ma fondamentale per il valore del prodotto, uno specchio della società. Pertanto l’editoria è un arcipelago esteso di spazi e approdi che sono altrettanti baluardi culturali». Aneddoti, rivolgimenti storici, curiosità locali, incontri decisivi, specificità geografiche: gli ingredienti scelti da Cicala per il suo racconto espongono l’intreccio inestricabile che, da Aldo Manuzio al Risorgimento fino ai giorni nostri, legano grande epopea dell’editoria italiana alla storia e alla geografia dell’Italia tout court.