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Case e trasporti, così le città cambiano il clima

Il fatto della settimana I due terzi delle emissioni arrivano dall’edilizia e dai trasporti. Dal fotovoltaico alla dispersione energetica, le soluzioni applicabili

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 7 gennaio 2021

Oggi, nei paesi sviluppati, la maggior parte delle emissioni urbane di CO2 viene da due settori: l’edilizia e i trasporti. Dato che il 60-70% delle emissioni globali è generato dalle città, per centrare l’obiettivo europeo del taglio del 55% entro il 2030, sono questi i due settori su cui puntare.

Per quanto riguarda gli edifici, le emissioni derivano principalmente dai consumi per il riscaldamento e, per ridurli occorre ridurre le dispersioni di calore, cioè cappotto e infissi più isolanti. Ma non basta, l’altro passo è la sostituzione della caldaia con la pompa di calore perché è molto più efficiente.

L’ultimo passo è quello di mettere un impianto fotovoltaico capace di produrre tutta o in parte l’energia elettrica occorrente per il riscaldamento con la pompa di calore (e il condizionamento, se c’è). In questo modo, se il consumo annuale di energia elettrica per la climatizzazione eguaglia la produzione annuale mediante l’impianto fotovoltaico, le emissioni di CO2 sono azzerate.

Ulteriore vantaggio è che tutti questi interventi (cappotto, infissi performanti, fotovoltaico), ormai si ripagano in pochi anni, grazie alla riduzione, quasi azzeramento, della bolletta energetica. Bolletta energetica che oggi è sentita come particolarmente pesante specie per i meno abbienti, per quali costituisce una larga fetta del bilancio familiare. Secondo l’ultimo rapporto dell’Osservatorio Italiano sulla povertà energetica, 2,2 milioni di famiglie (l’8,7% del totale) nel 2017 si trovavano nelle condizioni di povertà energetica, cioè non erano in grado di riscaldare adeguatamente le loro abitazioni e/o erano in ritardo nel pagamento delle bollette del gas e dell’elettricità. Le cose non sono certo migliorate oggi, specialmente a causa degli effetti economici della pandemia.

Vantaggio ambientale, quindi, vantaggio economico e vantaggio sociale combinati, e a questo mira il bonus detto del 110%, che permette di fare tutte le trasformazioni necessarie senza alcun investimento, che è a carico dello stato, nell’ambito del piano Next Generation Italia. È un’operazione che dà luogo a tutta una serie di conseguenze vantaggiose: a) la riduzione delle emissioni di CO2; b) la riduzione delle importazioni di gas, e conseguente miglioramento della bilancia commerciale; c) un significativo contributo al bilancio familiare, e alla qualità della vita, specialmente a favore dei meno abbienti; d) l’incremento di attività imprenditoriali legate all’edilizia e all’impiantistica, con le conseguenti ricadute su tutta la filiera a monte e sulla occupazione; d) benefici per la salute, a causa della riduzione dell’inquinamento da polveri sottili, che è in larga parte imputabile alle caldaie degli impianti di riscaldamento.

Tutto rose e fiori, quindi? Purtroppo non proprio, perché c’è il reale pericolo che gli interventi eseguiti non diano luogo alla riduzione delle emissioni dichiarata, vuoi per dolo, vuoi per incapacità del progettista, vuoi per intrinseca inaffidabilità in certe circostanze dello strumento di calcolo usato. Sarebbe quindi essenziale eseguire dei collaudi a campione, misurando e confrontando i consumi (e quindi le emissioni) prima e dopo l’intervento, in identiche o comparabili condizioni, per verificare l’efficacia degli interventi e introdurre nuove sanzioni o inasprire le esistenti.

E non basta, perché c’è il tema del grande ostacolo costituito dalle barriere burocratiche e amministrative che vanno subito individuate e rimosse.

Se tutto ciò viene messo in atto, l’obiettivo della riduzione del 55% delle emissioni del settore edilizio può considerarsi realmente raggiungibile.

Non si può dire lo stesso per quello che riguarda la riduzione delle emissioni dovute alla mobilità urbana. E sì che, secondo la Ellen MacArthur Foundation, quella urbana è attualmente in Europa la componente più grande delle emissioni globali di CO2 dovute ai trasporti ed è la più grande fonte locale di inquinamento atmosferico urbano.

La bozza del 6 dicembre del piano Next Generation Italia, infatti, affronta il problema sul solo lato tecnologico: si propone di rinnovare il parco con auto diesel o a benzina più efficienti, di realizzare infrastrutture per la ricarica delle auto elettriche e per quelle (che non ci sono ancora) a idrogeno, di promuovere veicoli a biometano, e rinnovare il parco autobus. A questo si aggiunge il rinforzo della rete delle ciclovie.

Insomma, con l’auto elettrica, o a idrogeno che non c’è, più qualche pista ciclabile per gli appassionati e i salutisti, sembra che il problema delle emissioni di CO2 dovute alla mobilità urbana sia risolto.

Ma un’auto elettrica (come del resto quella a idrogeno) non è necessariamente a emissioni zero; per esserlo deve essere ricaricata con energia elettrica proveniente da fonti rinnovabili, sennò le emissioni sono semplicemente delocalizzate, dalla città al luogo in cui c’è la centrale elettrica che fornisce la carica; dunque c’è da immaginare che si dia per scontato un colossale di incremento della potenza fotovoltaica ed eolica installata, specificamente destinato alla mobilità, da aggiungere a quello richiesto dal passaggio dalla caldaia a gas alla pompa di calore elettrica per il riscaldamento. Il piano però cita semplicemente una crescita della produzione di energia rinnovabile, non una crescita imponente, come sarebbe se l’attuale parco auto circolante diventasse tutto elettrico.

Ma la verità è che il problema della mobilità urbana, nei termini in cui viene affrontato, è mal posto. Infatti, per prima cosa bisognerebbe chiedersi: perché ho bisogno dell’auto? La risposta è (a parte fattori psicologici e sociali di cui qui non ci occupiamo) che ne ho bisogno perché quotidianamente devo raggiungere luoghi che sono a distanza tale dalla mia abitazione da richiedere un mezzo veloce e comodo; e il mezzo pubblico collettivo molto spesso non riesce a soddisfare questa esigenza.

Quindi, se questi luoghi fossero invece vicini, tanto da essere raggiungibili a piedi in pochi minuti, l’auto non sarebbe più necessaria, se non in particolari circostanze.
Allora il problema va ribaltato: non sempre più auto, sia pure sempre più efficienti e meno inquinanti, ma riorganizzazione del tessuto delle funzioni urbane in modo che i luoghi da raggiungere più di frequente, diciamo ogni giorno, siano a non più di 5-10 minuti (a piedi o in bicicletta) e quelli in cui si va meno frequentemente (due-tre volte la settimana) a non più di 10-15 minuti.

Negozi di alimentari, scuola primaria, negozi di articoli di prima necessità, farmacia, laboratori artigiani per la riparazione di prodotti (sempre più numerosi in prospettiva, ora che il Parlamento Europeo ha approvato il “diritto alla riparazione”), bar, e in generale ciò che serve spesso, quasi quotidianamente, devono essere vicino casa, tanto da rendere più veloce e più comodo andare a piedi che prendere l’auto. Ora, con il diffondersi dello smart working, e di locali attrezzati per ospitare chi ha bisogno di una postazione di lavoro ben connessa a internet (co-working), per alcuni pure il luogo di lavoro può trovarsi vicino casa.

Se un quartiere è attrezzato in questo modo, l’auto non serve più, e quando serve conviene utilizzare il car sharing – naturalmente con auto elettriche che in Italia, grazie alla quota di rinnovabili nel sistema elettrico, emettono certamente meno di quelle a benzina o diesel – o, in prospettiva, il robotaxi, cioè il taxi a guida autonoma. Complessivamente il numero di autovetture occorrenti si ridurrebbe enormemente, il che comporterebbe anche una riduzione delle emissioni derivanti dalla loro fabbricazione, le cosiddette emissioni incorporate, oltre a quelle derivanti dal funzionamento.

Non è una ipotesi visionaria e impraticabile, perché di recente è stata fatta propria dalla sindaca di Parigi, Anne Hidalgo, che ha lanciato la “Parigi del quarto d’ora”, ristrutturata nei suoi servizi e funzioni sulla base del principio sopra esposto, secondo cui tutti i luoghi che serve raggiungere di frequente devono trovarsi a non più di un quarto d’ora da casa, a piedi o in bicicletta.

È chiaro che un approccio del genere implica il passaggio dal concentrato al distribuito: da pochi grandi supermercati a tanti piccoli negozi di alimentari, da pochi grandi centri commerciali, a tanti piccoli esercizi, da tante auto per strada a pochissime. Sono rivoluzioni, che hanno molte implicazioni di varia natura, dall’aumento dei posti di lavoro (tanti piccoli negozi richiedono più personale di un centro commerciale o un supermercato) al diverso rapporto, più a misura d’uomo, fra venditore e acquirente, dalla liberazione di superficie stradale grazie alla riduzione del traffico all’aumento delle piste ciclabili e della larghezza dei marciapiedi, utilizzabili per ospitare alberi, aiuole e arredo urbano vario. Non sono cambiamenti di poco conto, e ci sono numerosi fattori socio-economici da tenere sotto controllo, non ultimo il ruolo dell’e-commerce. Ma è di un nuovo modello di città che stiamo parlando, da costruire. Una città che recupera il meglio delle città di una volta, quando l’auto non c’era, il negozio era sempre sotto casa, integrandolo nella modernità che lo sviluppo scientifico e tecnologico ci ha permesso. Una città “ripensata”, più sostenibile e più giusta.

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