Case come specchi della psiche, da Clemente a Barceló
Divertissements culturali In «Casa come me» (Edizioni Settecolori) Carlos d’Ercole racconta le dimore di vari artisti attraverso conversazioni e fotografie originali. Numi tutelari Mario Praz e Curzio Malaparte
Divertissements culturali In «Casa come me» (Edizioni Settecolori) Carlos d’Ercole racconta le dimore di vari artisti attraverso conversazioni e fotografie originali. Numi tutelari Mario Praz e Curzio Malaparte
Sono due i titanici numi tutelari che vegliano, immaginiamo con un leggero ghigno accondiscendente, sull’ultimo libro pubblicato e assemblato da Carlos D’Ercole, Casa come me. House like me (Edizioni Settecolori, pp. 256, illustrato, euro 36,00). Uno è Curzio Malaparte, che riferendosi affettuosamente alla sua abitazione della vita, la villa fatta costruire a Capri commissionandola ad Adalberto Libera, la chiamava appunto «casa come me». L’altro è Mario Praz, che ne La casa della vita ricostruì, ambiente per ambiente, la storia affettiva della sua dimora storica in Via Giulia, e con essa ripercorse la sua vita.
D’altra parte chi può negare che la propria abitazione sia in realtà una sorta di estensione di sé stessi, e non solo racchiuda la propria storia attraverso le cose che essa contiene – «Je crois que le plus grand attrait des choses est dans le souvenir qu’elles réveillent dans le cœur ou dans l’esprit, mais surtout dans le cœur…», suggeriva Delacroix nel suo diario, citato, appunto, da Praz –, ma viva anche come proiezione delle virtù e delle mollezze del proprietario, dei suoi fantasmi e dei suoi sogni, diventandone sogno utopico e anche, in potenza, deriva distopica.
Una casa che diviene specchio della psiche e che pertanto è assurta in passato a dispositivo letterario complementare all’analisi del personaggio, e le innumerevoli, indimenticabili case della letteratura, da quella di Des Esseintes a quella di Percival Bartlebooth restano lì a rammentarcelo.
È su queste premesse che si fonda questa sorta di raccolta di case d’artista costruita da D’Ercole, in cui gli ambienti non sono indagati come curiosità o fenomeno estetico fine a sé stesso, ma come esteriorizzazione tangibile della psiche dei loro proprietari, e questo avviene attraverso i diversi registri della traccia fotografica, con scatti realizzati da fotografi o dagli stessi proprietari, della conversazione, con cui gli artisti finiscono per inscrivere le loro case entro personali prospettive d’affetto, e del cadeau inedito che l’autore del libro esige come omaggio al progetto da ciascuno di loro, sia esso una foto, un libro, un’opera. Si tratta dunque di un libro nato come leggero divertissement, in cui all’esplorazione degli oggetti, delle librerie, dell’arredamento delle case si aggiunge una ricchezza di aneddoti e distorsioni soggettive narrati dai personaggi coinvolti, facendone una disimpegnata e gustosa cavalcata di ritratti.
Alla natura lieve e rapsodica di questa raccolta allude d’altra parte lo stesso D’Ercole in una sorta di prefazione, confessando che «ci sono quei giorni in cui non ho voglia di letture impegnative. Sfoglio con pigrizia un Thomas Pynchon e lo rimetto a posto». Del resto la struttura del libro è eccentrica, e i protagonisti sono stati trovati tra gli amici o gli amici degli amici, riducendo i sei gradi di separazione della ben nota teoria semiotica a uno soltanto. È significativo poi che i quattordici segmenti del libro, in italiano e inglese, siano stati parzialmente pubblicati su «Domus» a partire dal 2020, e conservino in un certo senso l’eco di quell’anno zero dell’era pandemica in cui imparammo a scoprire nuove inattese dimensioni dell’abitare domestico, e si rese necessario ridefinire inedite psicogeografie casalinghe.
Al di là di una voluttà quasi voyeuristica, sbirciare nelle abitazioni dei pittori, scultori e fotografi coinvolti (ma abbiamo anche un mercante d’arte: Rafael Jablonka; due musicisti: Paolo Fresu e Enrico Rava; e un regista: Abel Ferrara), ascoltare le loro parole, i loro, talvolta buffi, aneddoti, arrichisce comunque il contesto in cui inserirne il lavoro, il più delle volte confermando di quell’artista l’idea che ci si era fatti. La casa di Francesco Clemente ha una forte connotazione etnica, ad esempio, marcata da sculture jain medievali, da un copricapo rituale della Sierra Leone, ma combinati disinvoltamente con opere di Boetti, di Beuys, di Cy Twombly e persino di Füssli, tra gli altri; quella di Luigi Serafini è adattata con una rigidità maniacale al suo immaginario surrealista, lo stesso da cui scaturisce il suo Codex seraphinianum; Albert Watson abita in un elegantissimo e crepuscolare appartamento newyorkese, del tutto affine, in gusto, ai suoi scatti fotografici. E così via con le case di Pablo Echaurren, di Carlo Benvenuto, di Mimmo Paladino e di Pedro Cabrita Reis.
Quanto a Miguel Barceló, la sua casa-studio parigina ha la stessa vibratilità disordinata della sua pittura, e non sorprende trovare tra un’opera di Sottsass e una di Alessandro Magnasco, tra un piccolo Goya e una sedia di Alvar Aalto, delle sculture africane pre-Dogon – chi conosce Barceló sa della sua fascinazione per l’Africa – o elementi a conferma della sua passione taurina tutta spagnola.
Non di rado, i ritratti si sbilanciano verso l’indagine dei libri preferiti degli artisti coinvolti, suggerendo che ogni biblioteca possa dire molto sull’identità del suo proprietario, e si va dalla passione per la diaristica di Barceló – il Cuaderno Gris di Josep Pla, Montaigne, il Diario del artista seriamente enfermo di Jaime Gil de Biedma, quello di Pontormo, la Vita di Benvenuto Cellini – agli autori preferiti dal taciturno pittore newyorkese Terry Winters, come Henri Michaux, con i suoi esperimenti di scrittura automatica, Burroughs, Ballard, fino all’ossessione collezionistica per le diverse traduzioni di Voyage au bout de la nuit di Céline sviluppata da quello che alcuni definiscono il Pedro Almodóvar della fotografia, Alberto García-Alix.
Chiudendo il libro, è inevitabile pensarlo in relazione alle altre opere pubblicate da D’Ercole: Vita sconnessa di Enzo Cucchi, in cui si ricostruiva in negativo il profilo del pittore, assente come convitato di pietra, attraverso le testimonianze di amici e colleghi, e Dizionario Gonzo, dove D’Ercole narrava sé stesso attraverso i propri livres de chevet, e può balenare in mente che, prima ancora cun avvocato bibliomane e collezionista d’arte, egli sia un attento e scanzonato ritrattista.
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