A esattamente 70 anni dalla sua uscita, la Cineteca di Bologna rimette in circolazione, in versione restaurata, uno dei grandi classici moderni del cinema francese: Casco d’oro di Jacques Becker, che all’epoca conobbe un insuccesso memorabile, sia di pubblico che di critica, giudicato troppo brutale, privo di quelle convenzioni ritmiche a cui il cinema, specie quello hollywoodiano, aveva abituato il pubblico; troppo poco persuasivo, non abbastanza sociologico nel suo realismo lunare.
Una delle rare eccezioni fu André Bazin, che nel 1957 scriveva: «Possiamo allora chiederci come mai il capolavoro di Jacques Becker rimane l’ammirevole Casco d’oro, la cui azione si svolge in un quadro e in un’epoca che furono quelli della prima infanzia del regista. È che, trattandosi del passato, il “realismo” non risiede in una certezza esaustiva ma nella coerenza, la forza e la novità dell’evocazione».

UN FILM piuttosto secco che racconta un mondo arido. Un film senza fronzoli (con un finale lacerante), che riporta sullo schermo, minuziosamente, con grande sobrietà, la Parigi popolare di inizio secolo (a partire dalla lingua parlata, l’argot delle classi emarginate), dove la prostituta Marie (Simone Signoret) e il falegname in cerca di riscatto Manda (Serge Reggiani) vivono il proprio destino tragico affrontandolo con straordinaria e silenziosa dignità, accompagnati lungo tutto il film da Les temps des cerises, ballata celebre tra le barricate della Comune nel 1871. Un film di ombre, di luci taglienti, di sguardi abissali, di parole trattenute e sentimenti radicali, latenti in ogni movimento, disseminati in ogni inquadratura, un film di tensioni continuamente interrotte. Un noir scontroso, archetipico, in un laconico dialogo a distanza con le atmosfere di Detour di Ulmer o di Giungla d’asfalto di Huston, e i valori morali della tradizione letteraria del populismo di inizio ‘900.
Jacques Becker è, tra i registi francesi dell’immediato secondo dopo-guerra, quello che sembra aver meglio rilanciato la lezione di Jean Renoir (di cui è stato collaboratore negli anni ’30): la materia parla da sé, non serve un’obbedienza ad alcun partito preso di ordine estetico, il «gioco» con gli attori è il terreno principale attraverso cui riuscire a far passare delle verità, lontano da ogni tentazione pittoresca e dall’illusione narratologica. La precisione con cui situa i suoi personaggi è impressionante (in ogni suo film, si direbbe). Il suo talento rigoroso si cela dentro le situazioni che mette in scena, dietro i rapporti di forza tra i personaggi e la realtà in cui si muovono, rivelando la flagranza istantanea di ogni immagine attraverso un lavorio tutto interno alla scena, all’instabilità di ogni situazione.