Inaugurato, in una serata divenuta leggenda, il 15 giugno 1929, l’appartamento parigino di Léonce Rosenberg in 75, rue de Longchamp, sedicesimo arrondissement, rappresenta uno spaccato clamoroso delle controversie anni venti intorno al ‘decorativo’, significato e statuto. Il benjaminiano inquilino dell’intérieur è in questo caso uno dei grandi mercanti d’arte moderna, segnatamente del cubismo, colui che, approfittando della guerra e dell’autoesilio svizzero di Daniel-Henri Kahnweiler, gli si era sostituito, acquisendo Picasso e compagni alla sua galleria, L’Effort Moderne (19, rue de La Baume), e giocando un ruolo sporchissimo, in linea con la xenofobia istituzionalizzata delle autorità francesi, allorché le riserve cubiste dell’altro, e di Wilhelm Uhde, erano state liquidate in asta da Drouot, fra 1921 e ’23, misura contro i tedeschi, nemici di guerra.

Chi meglio ha disegnato la sfaccettata ed equivoca personalità di Leonce Rosenberg è, nelle sue memorie, Gino Severini, che colse il «suo non essere interamente in nessuna condizione, né in quella disinteressata dell’arte e della cultura, né in quella borghese, né in quella esclusivamente commerciale, ma (…) contemporaneamente in tutte e tre». Il progetto della sua grandiosa dimora ‘arredata’ di tele di artisti contemporanei organizzate in serie, appositamente commissionate, risponde perfettamente a questo sfuggente profilo. Rosenberg coniuga la casa-guscio e la casa di rappresentanza, aperta agli scambi intellettuali e al marketing. Il progetto si era già fatto strada nell’ottobre del ’23, quando in una mostra da lui voluta sugli architetti del gruppo De Stijl, Leonce aveva presentato la maquette di una «Maison Rosenberg» di stile modernista.

La casa di stile modernista? Qui il problema, che cercheremo di sciogliere con l’ausilio della preziosa mostra Dans l’appartement de Léonce Rosenberg. De Chirico, Ernst, Léger, Picabia…, curata per il Musée Picasso Paris da Giovanni Casini – recente autore di un libro sul gallerista (Penn State University Press, 2023) – e Juliette Pozzo, che nel catalogo (Flammarion) si applica sul controverso rapporto di Rosenberg con Picasso, il quale lo aveva eternato, 1917, nella grottesca figura del Manager français per il balletto Parade.

Non è possibile qui dettagliare sulle varie occorrenze relative alla fabbrica: rapporto con gli artisti, in cui il mecenate si alterna al padrone; problemi logistici; turbamenti estetici o percettivi (l’horror vacui!). La mostra ricostruisce idealmente l’insieme, stanza per stanza, sanando nei limiti del possibile, con opere sostitutive giuste, dove l’originale manca.

Il problema dell’abitare, con le sue implicazioni formali, sociali, ideologiche, fa capo all’orgia del decorativo che fu a Parigi, nel 1925, l’Esposizione Internazionale, trionfo e insieme caduta delle Arts Déco – cfr. lo storico, elettrico saggio di Giulia Veronesi Stile 1925 (Vallecchi, 1966). In quella «‘Maratona’ internazionale delle arti della casa» (Le Corbusier), l’alta borghesia francese trovava lo specchio, incrostato di madreperla, delle sue gioiose aspirazioni, che di lì a poco – la crisi del ’29 – si sarebbero pervertite in amarissime illusioni. Attraverso la figura di Léonce Rosenberg si può leggere il profilo di questa caduta, che avrebbe liberato, del resto, le energie più schiette del Moderno, un modo tutt’altro, puro, funzionale, modulare.

Giorgio de Chirico, “Gladiateurs au repos”, 1928-’29, coll. priv., già in casa Rosenberg

Proprio sul confine estremo dell’Expo 1925 questo modo era rappresentato dal padiglione iconoclasta dell’Esprit Nouveau, sacerdote Le Corbusier. Nessuno arrivava fin lì, testimoniò Corbu, ma verso il crepuscolo, ecco giungere, quasi per caso, Jacques Emile Blanche: sui suoi «sentimenti (…) sovraccarichi di dorature, di lacche e di marmi, scende il refrigerio della nostra casa bianca. (…) Lo spirito così fine, l’educazione così perfetta di monsieur Blanche sono urtati. Allora noi ci spieghiamo. Ah, ecco che il nostro programma ottiene il proprio effetto. Qui dentro, dunque, ci sarebbe qualcosa di più dell’arte decorativa?». Quanto di questo di più sarà compreso nella casa Rosenberg? Vediamo.

L’immobile è di recente costruzione, datato 1928 in facciata, architetto Charles Thomas: localizzazione e struttura rispondono a un gusto piuttosto conservatore; Rosenberg, suggerisce Casini, sembra preferire il «moderno» al «modernista». Il 16 marzo del ’28, in una lettera a Léger, annuncia che sta per prendere in affitto l’appartamento, 360 metri quadri, dove di lì a poco si trasferirà con la moglie e le tre figlie. Comincia il cantiere dell’arredamento!

Nel definire, per ogni stanza, il preciso segno da affidare a un artista, incaricato di un ciclo di opere, egli cerca la giusta sintonia, o antinomia, con la mobilia di sua proprietà, ottocentesca francese, stile Impero, Restaurazione, Luigi Filippo – Léonce, figlio di un mercante ebreo slovacco divenuto antiquario, e fratello di quel Paul che gli soffierà Picasso, aveva cominciato la sua carriera come marchand en chambre, trattando mobili, oggetti e dipinti di alta epoca, e pezzi archeologici. In una lettera a Ozenfant del settembre ’26 egli spiega come, secondo lui, i mobili Luigi Filippo possano agire virtuosamente sulla percezione dei valori cubisti. La dichiarazione è un programma, aiuta a comprendere il senso complessivo del disegno.

Fin dai tempi della Maison Cubiste di André Mare, Salon d’Automne 1912, il Luigi Filippo era una delle fonti primarie nell’elaborazione dell’Art Déco, che lo rivisita secondo una modalità alessandrina. Già in quella stagione precoce Léger si era compiaciuto della possibilità di introdurre il cubismo nella vita quotidiana, attraverso l’arredamento. La ‘macchina’ di Mare – poi divenuto uno dei mattatori, in società con Louis Süe, della «‘Maratona’ internazionale delle arti della casa» – si era distinta quale fascinosa proposta intermedia, dove un certo modo di leggere la tradizione francese apriva ai linguaggi dell’avanguardia, che ne risultavano morbidamente stemperati. Questa forma di compromesso, ben lontana dalla «casa bianca» di Le Corbusier, dettava adesso il tono generale dell’Esposizione 1925, e non fu estranea allo spirito informatore di casa Rosenberg.

Léonce Rosenberg, da una foto post 1932, Parigi, Centre Pompidou, Bibliothèque Kandinsky

È vero, del resto, che nella scelta della mobilia il gallerista apriva al nuovissimo almeno in un caso fra le undici pièces, la sala da pranzo, dove gli aplats geometrici biomorfi di Georges Valmier e le statue in pietra, cubismo classicizzato, di Joseph Csaky dialogavano con gli esemplari metallici di René Herbst, fra i primi a sperimentare il tubo d’acciaio. Questi gli altri artisti chiamati a raccolta: Fernand Léger ed Ervand Kotchar per l’ingresso e il vestibolo; Giorgio de Chirico, la hall; Jean Metzinger, il salone; Auguste Herbin, la sala fumatori; Jean Viollier, il boudoir di Madame; Francis Picabia, la camera di Madame; Amedée Ozenfant e Manuel Rendón, la camera di Monsieur; infine le stanze delle tre figlie: Alberto Savinio per quella di Lucienne; Gino Severini e Albert Gleizes, Jacqueline; Max Ernst, Madeleine. Secondo l’appassionato resoconto di Paul Fierens («Variétés», 15 luglio 1929), il piano generale è segnato dal carattere contraddittorio delle scelte, che indica un’aderenza alla molteplicità dei linguaggi e alla relatività degli stili o, con Giovanni Casini, all’«eteroglossia», tipici della stagione storica. Il cubismo non è più rappresentato dai fondatori – Picasso, Braque, Gris –, pure intimi della scuderia dell’Effort Moderne, ma dalle forme impure originate dal… purismo (Valmier, Ozenfant); dall’astrazione, nella versione organica di Léger e Herbin; dall’accademia, nel vigoroso classicismo di Rendón e Metzinger.

Maggiore è l’implicazione ideologica sul ritorno dell’Antico, figurato in modo eclatante dai Gladiatori di de Chirico e dalle Trasparenze di Picabia. Qui si tocca un nervo scoperto degli anni venti. Fra i primi ad accorrere in rue de Longchamp, e a scriverne («La Presse», 5 luglio 1929), fu Waldemar-George, critico dei più influenti, che aveva indicato in de Chirico il visionario porta-parola di un’arte filosofica da opporre all’inesorabile decadenza dell’Occidente. Questa posizione reazionaria, intrisa di argomenti xenofobi, vedeva nelle fantasie del Pictor Optimus il rinverginarsi della tradizione classica, ma all’interno del linguaggio moderno, cui Waldemar-George era specialmente interessato. La domanda è se, e in che modo, Leonce Rosenberg intendesse farsi spalla di una simile deriva, con la hall trasformata in un’arena imperiale romana.

Nonostante le sue simpatie per il fascismo delle origini – Mussolini, aveva scritto, «eroe cubista» – e per il governo autoritario, la sua parabola non è sovrapponibile a quella di Waldemar-George, che da fiancheggiatore dell’École de Paris, melting-pot espressivo, diventerà nei primi anni trenta un aperto sostenitore dei regimi neri. Men che meno regge il confronto nell’idea di classicità. Giusta l’analisi di Casini, specialista in materia, Rosenberg, più che formulare una revanche culturale, sembra accordarsi con l’«insolente, melanconico e languoroso, anche morbido», di Jean Cocteau, il «giocoliere» dei miti antichi, così ben descritto, questi giorni, nella mostra di Venezia, Guggenheim, a cura di Kenneth E. Silver.

In questa prospettiva, i gladiatori di de Chirico risultano fantastici smidollati, ironiche controfigure, e coabitano nel modo più naturale con le mitologie stratificate, trasparenti di Picabia, nella stanza di madame Rosenberg, ispirate a un catalogo ottocentesco del Real Museo Borbonico napoletano. Nei loro «riflessi sottomarini, glauchi, bluastri» (Fierens), nell’agilità sinuosa dei segni lineari, le tele del dadaista riconvertito sono ridotte a mero fatto di gusto, elemento seducente e intercambiabile di una giostra decorativa in cui il motivo classico appare svuotato di sostanza, trasformato in un gioco delle apparenze.

Il 15 aprile 1932, meno di tre anni dopo la lucente inaugurazione del suo regno domestico, Rosenberg è costretto a smobilitare. La Grande Depressione non è decorativa. Segue la discesa: prima un appartamento più modesto in 20, rue Spontini; poi un altro, più modesto ancora, in 3, square du Tarn, dove resterà fino alla morte nel 1947, dopo aver subito, durante l’Occupazione, le umiliazioni riservate agli ebrei. Nel balzachiano crollo delle aspettative, la sua sorte può ricordare – leggere Man Ray, Self Portrait! – quella di Paul Poiret, il sarto della sfacciata modernità femminile, altro interprete dorato degli anni folli.

La casa di rue de Longchamp testimonia nel modo più scoperto lo scacco di un gusto, di un’ideologia, sul limite del tempo, che sognava di coniugare la comodità spirituale di antica radice borghese all’arte nuova, senza avvertire lo spostamento del processo storico, che si sarebbe presto incaricato di fare tabula rasa.