«La prima volta che sono entrato ero minorenne, alla fine del 1991. Ho fatto due anni e sono uscito. Poi mi hanno arrestato a settembre del ‘94. Sono uscito una seconda volta nel settembre del 2000 per scadenza dei termini. Eravamo sessanta imputati. Mi hanno arrestato di nuovo il 16 o il 17 novembre dello stesso anno. Da allora non sono più uscito, fino al luglio del 2021. Nel 2000, avevo 25 anni quando sono entrato al 41bis…».

UNA CALDA LUCE artificiale illumina la stanza, piccola, con un divano all’entrata, di fronte due scrivanie con sopra due computer. Fuori è già buio, nonostante sia tardo pomeriggio. Dalla vetrata della stanza si vede un terrazzo scuro che gira intorno alla casa. Dietro, una lunga lingua nera di parco divide il quartiere di Monteverde dalle palazzine illuminate di Corviale, nella zona sud ovest di Roma. A parlare è Gaetano, quarantasette anni, naso pronunciato e capelli corti. Racconta la sua storia con un forte accento napoletano e un modo di fare diretto e amichevole. L’abbigliamento è sportivo: una tuta per il dopolavoro. Gaetano sta scontando gli ultimi tre anni di pena in semilibertà, dallo scorso luglio lavora come operaio in un’azienda poco fuori Roma e sta iniziando a ricostruirsi una vita, dopo averne passata quasi la metà in carcere. Vive nella casa-famiglia Don Pino Puglisi, in un ampio appartamento che divide con altri tre detenuti, che un tempo era appartenuto a un componente della banda della Magliana e che dal 2010 è stato riassegnato dal comune di Roma come bene confiscato.

«Forse alla fine di questa triste storia, qualcuno troverà il coraggio per affrontare i sensi di colpa e cancellarli da questo viaggio…». Sono le tre di pomeriggio di una grigia domenica e nella cucina della casa da un cellulare si sente la voce di Vasco Rossi che intona una delle sue canzoni più famose. Intanto tre dei quattro inquilini, finito il pranzo a base di pesce del supermercato, smistano la spesa ordinata per la settimana seguente. Durante il pranzo emergono ricordi di vecchi pasti a base di aragoste o frutti tropicali, come ombre di viaggi di vite passate, in luoghi lontani tra America latina, Medio Oriente ed Europa dell’Est, tra rotte marittime e lunghi anni passati sui camion. Ad alimentare questi discorsi sono Marco e Alberto, entrambi over 60, uno delle Marche e l’altro con un accento indefinibile. Ad aiutarli con la spesa c’è Livia Fiorletta, quarant’anni, capelli scuri a caschetto e viso combattivo, pronta allo scherzo. È un’educatrice professionale e la coordinatrice della cooperativa sociale Pronto intervento disagio (Pid) che gestisce la struttura d’accoglienza. L’associazione è nata nel 1998 a Roma, dalla collaborazione tra ex detenuti e operatori sociali. Ora sono in undici.

FIORLETTA descrive la casa come «una struttura cuscinetto tra il dentro e il fuori. Qui stabiliamo un programma individuale a seconda del soggetto e delle necessità: patente, visite mediche, documenti o anche questioni più personali come riallacciare rapporti familiari».
Sono cinque le strutture messe a disposizione dal comune di Roma per coloro che non possono usufruire delle pene alternative nel loro domicilio. Sono gratuite e affidate alle associazioni tramite bando. In totale ci sono circa 35 posti, differenziati in base a fasce d’età e sesso, a disposizione dei detenuti delle carceri di Rebibbia e Regina Coeli. Il tempo che i detenuti passano nelle strutture è variabile, da pochi giorni ad anni, a seconda che siano lì per permesso premio o per una misura alternativa con possibilità di lavoro, in base a quanto stabilito dal Tribunale di sorveglianza. Il Pid gestisce altre due strutture di questo tipo in collaborazione con le cooperative «Il Cammino», «Cecilia» e «Ain Karim».

NEL 2021 sono arrivate a 100 mila le misure alternative decise dai Tribunali di Sorveglianza, di cui circa 29 mila solo tra il 2019-2021, stando ai dati del ministero della Giustizia elaborati dall’associazione Antigone nel rapporto «Oltre il Virus. 17° Rapporto sulle condizioni di detenzione».

PER FAVORIRE una rapida e trasparente riassegnazione dei beni confiscati a Roma la giunta di Roberto Gualtieri a dicembre 2021 ha creato un nuovo Forum. Secondo il sindaco Gualtieri, «Roma ora ha a disposizione un nuovo importante strumento di partecipazione attiva». L’obiettivo è di fare rete con le associazioni del territorio e ottimizzare la gestione dei fondi. Non mancano le difficoltà: sul territorio capitolino sono presenti 127 immobili confiscati, il 45% è ancora inutilizzato, in linea con le medie nazionali che vedono circa il 50% dei beni confiscati fermi. Gianpiero Cioffreddi, presidente dell’Osservatorio per la sicurezza e la legalità della Regione Lazio, segnala che i fondi non sono sufficienti per gestire tutte le strutture: «Il Pnrr ha destinato 250 milioni solo alle regioni del Sud, non prendendo in considerazione che il 26% delle strutture sta nel centro-nord. Andrebbe sbloccato il fondo del Ministero dell’economia che gestisce i circa 5 miliardi di euro confiscati alle mafie, per metterlo a disposizione delle amministrazioni per ristrutturare i beni». Il dirigente regionale sostiene che non vada abbassata la guardia su Roma. Nel 2021 la Capitale risulta prima tra le città italiane per movimenti di proprietà sospetti, chiaro sintomo di attività criminali.

NEL SETTEMBRE 2022 verranno celebrati quarant’anni dall’adozione della legge Rognoni-La Torre, la prima a livello mondiale a istituire la confisca dei beni delle associazioni mafiose. Franco La Torre, ex presidente di Libera -oggi ricorrono quarant’anni dalla morte del padre, Pio la Torre, leader del Pci siciliano ucciso da Cosa Nostra il 30 aprile del 1982 a Palermo – fa un bilancio in chiaroscuro della situazione attuale. «Dal 2017 si è iniziato a investire di più sull’Anbsc, che sta finalmente arrivando a un organico sufficiente e la legislazione nel suo complesso rimane la più avanzata al mondo. Ma ancora adesso non si riesce a calcolare precisamente il valore di tutti i beni. E se vedi le percentuali di quanti di questi rimangono inutilizzati, ti rendi conto di quanto ancora va fatto». Non è mancato poi chi ne ha approfittato, come l’ex presidente di Confindustria Sicilia e responsabile Legalità di Confindustria nazionale, Antonello Montante. Nominato nel comitato direttivo dell’Agenzia dei beni confiscati nel 2014 dal governo Renzi, è stato arrestato nel 2015. Ora è sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa.

NELLA CASA PUGLISI è appena rientrato dal lavoro Francesco, 59 anni. Fa una videochiamata con la famiglia che vive a Secondigliano. Scherza con la moglie, le tre figlie e il nipote di pochi anni. Si reputa fortunato: la moglie era incinta quando lui è stato arrestato. È rimasto in carcere quasi venti anni. La moglie ha cresciuto l’ultima figlia da sola e non l’ha abbandonato. Adesso vuole solo una «vita normale», lontano da Napoli. Per lui Casa Puglisi «è una cosa importante, ti trattano come in famiglia».